Da Quarto al Mesima

Cap. 1: I preparativi

Eravamo dalla zia Mela quella domenica di luglio di alcuni anni fa, a Quarto Alto, uno dei quartieri residenziali attigui alla città di Genova.
Il giorno precedente si era sposato il figlio Santo e perciò  nonna Teresa, madre di lei, mia moglie Nella e io eravamo ospiti in casa sua assieme ad altri parenti.
Faceva un caldo insopportabile, ma nell’aria si respirava un non so che di felice perché, dopo quasi una settimana, trascorsa fuori paese, stavamo per tornare a casa.
Con noi sarebbe venuta in Calabria anche la zia e per la prima volta Valentina. La nostra cuginetta, dieci anni appena compiuti, vispa come un uccellino, seguendo la nonna nei preparativi per il viaggio, domandò:
« Nonna, perché le campane suonano a festa e più a lungo del solito? »
« Perché oggi è festa di San Giorgio », si sentì rispondere.
« San Giorgio? Ma non è il santo a cavallo? », osservò Valentina.
« Si.», replicò la zia, « Devi sapere che San Giorgio, nome che in greco vuol dire agricoltore, è patrono e protettore di Genova insieme con San Giovanni Battista. Il periodo della sua vita, secondo alcune fonti, è collocato tra il 280 e il 303 dopo Cristo, al tempo di Sant’Ambrogio e di San Gennaro.
I genitori, appartenenti alla nobiltà, lo educarono religiosamente fino al momento in cui entrò nel servizio militare. Trasferitosi a Lydda, in Palestina, si arruolò nell’esercito di Diocleziano, svolgendo la funzione di ufficiale delle milizie.
Secondo una leggenda, ripresa e diffusa dal vescovo di Genova Giacomo da Varazze all’epoca delle Crociate e consolidata attraverso molte tradizioni orali e scritte, Giorgio giunse una volta in Libia, più precisamente nella città di Silene.
Vicino a questa città, in uno stagno limaccioso, grande quanto il mare, si nascondeva un drago particolarmente feroce.
Per calmare il suo furore e per impedire che appestasse l’aria, causando sofferenza e morte, i cittadini gli offrirono dapprima due pecore al giorno, poi, quando queste cominciarono a scarseggiare, una pecora e un essere umano tirato a sorte.
Un giorno fu sorteggiato il nome della figlia del re il quale, preso dalla disperazione, si dichiarò disponibile a dare in cambio metà del suo regno e tutti i suoi tesori.
I cittadini, però, protestarono contro questa sua intenzione perché essi non avevano mai esitato a offrire i propri figli. Dopo otto giorni di tentativi, temendo che il malcontento della cittadinanza esplodesse in una ribellione, dato che i morti si contavano a centinaia, il re fece vestire la figlia con abiti regali, la benedisse e la lasciò andare verso lo stagno.
Giorgio, trovandosi a passare da quelle parti, vide la fanciulla tutta tremante e le chiese cosa avesse. Apprese così della sorte crudele che l’aspettava. Inorridito, decise di aiutarla e di liberare la città da quell’orribile tributo.
Non appena il drago uscì dall’acqua, spruzzando fuoco e fumo dalle fauci, Giorgio montò a cavallo, si fece il segno della croce e si scagliò contro di lui, ferendolo gravemente con la lancia.
Poi disse alla fanciulla di non aver timore e di avvolgere la sua cintura intorno al collo del mostro, che la seguì docilmente come un cagnolino al guinzaglio.
Il popolo, vedendoli venire verso la città, si spaventò, ma Giorgio lo rassicurò, annunciando che era stato mandato da Dio proprio per uccidere il drago, a condizione, però, che accettasse di convertirsi e di ricevere il battesimo.
Tutti gli abitanti si battezzarono e Giorgio, dopo aver ucciso il drago, lo fece portare lontano, trascinato da quattro coppie di buoi.
La tradizione vuole che quel giorno siano stati battezzati ventimila uomini, oltre alle donne e ai bambini.
Il re, felice e grato per quell’aiuto inatteso, non solo fece costruire un grande tempio in onore della Madre di Dio e del coraggioso cavaliere, ma offrì a Giorgio anche una notevole somma di denaro che lui, mettendo da parte ogni interesse personale, accettò e distribuì ai poveri del luogo.
Ospitato nel palazzo reale, Giorgio stabilì con il re rapporti così cordiali e affettuosi che, quando decise di lasciare la città, gli raccomandò di aver cura delle chiese, di onorare i sacerdoti, di ascoltare gli uffici divini e di ricordarsi dei bisognosi. »
« Mela, mo cùntandi comu San Giorgi diventau màrtiri », disse la madre alla figlia, con un tono di voce che tradiva la sua impazienza.
« Durante le persecuzioni, ordinate dal prefetto Daciano contro i Cristiani, Giorgio abbandonò l’esercito e davanti alla corte si professò cristiano.
All’nvito di rinnegare la sua fede e di sacrificare agli dei,  essendosi aperto a Cristo con tutto il suo cuore, disse di no e fu sottoposto a torture di ogni genere. Venne percosso con le verghe, sospeso per i capelli, bruciacchiato con fiaccole, lacerato con unghie di ferro e gettato in carcere ma, nonostante tutto, sopravvisse.
Daciano, colpito dalla sua fierezza, convocò un famoso mago perché intervenisse con i suoi incantesimi. Il mago, dopo aver tentato inutilmente di sopprimere Giorgio con vino avvelenato, pentito e piangente, gli chiese di convertirlo al Cristianesimo.
La reazione di Daciano non tardò ad arrivare. Il mago convertito fu messo a morte e Giorgio sottoposto ad altre torture. Fu colpito anche da spade a doppio taglio e immerso in una caldaia di piombo fuso, ma ancora una volta ne uscì indenne.
Di fronte a quest’evento straordinario Daciano capì che  per convincere Giorgio a sacrificare agli dei pubblicamente bisognava usare con lui un po’di maniera.
Giorgio finse di acconsentire ma, quando giunse al tempio, addobbato con sfarzo per la grande festa, invece di fare ciò che aveva promesso all’astuto Daciano, si inginocchiò e invocò Iddio perché il tempio crollasse. Iddio lo ascoltò e subito scese dal cielo un grande fuoco che bruciò gli idoli e i sacerdoti, mentre nella terra si aprì un baratro che inghiottì le rovine.
Esaudita la sua preghiera, Giorgio si lasciò decapitare nella  piazza, promettendo protezione a chi avesse onorato le sue reliquie.
Da quel momento la fama del Santo crebbe a dismisura. Il suo culto si diffuse nel mondo bizantino e all’epoca delle Crociate in Occidente. In Italia divenne patrono di grandi città come Genova, Venezia,  Ferrara, Reggio Calabria  e di numerosi piccoli centri abitati.
San Giorgio è il protettore di tutti coloro che praticano la professione delle armi e viene invocato dalla pietà popolare contro la siccità, il morso dei serpenti velenosi e le malattie  infettive. »
In tal maniera disquisì la zia e la madre confermò:
« E’ beru. Nd’aju sempi davanti a l’occhj chidu chi nci succediu a Nella quand’era cotrara. ’Nu jornu a la campagna provau du’ còccia di rocina e nci vinni la frevi forti. Lu medicu nci ordinau ‘nu saccu di medicini, ma la frevi nci continuau. Chjamammu  a ‘n’atru medicu, ma non ci fu nuda miglioria. Allora tutti nui ndi votammu cu’ San Giorgi e idu la sanau.
San Giorgi ndi fici ‘n’atru miraculu quandu ‘na sira, jocandu cu’ fràtita a mucciateda, cadisti ‘ntra lu canaluni di la Rutunda.
No’ nc’era nudu a chid’ura e cu sapi l’acqua aundi ti portava, si non era pe’ chidi pizzuca chi lu patri avia misu a lu limiti di la terra nommu passa corcunu mu nd’arròba. Sicuramenti tu t’annegavi, ma pe’ furtuna idi ti fermaru e tu ti sarvasti.
Oh San Giorgi bellu, San Giorgi cavaleri! Aiutàtindi a tutti! Fàtindi mu tornamu ‘nsanta paci a lu paisi nostru! Addaccussì venimu mu vi ringraziamu e mu vi cantamu l’innu di la festa. »
E intonò con voce bassa e fioca quest’inno popolare, che aveva imparato a memoria fin da bambina e che con molta delicatezza e autentica fede aveva scritto in un dialetto alterato l’ignoto autore che conosceva la leggenda del Santo:

San Giorgi si vestiu di cappellanu,
a parti di marina si ndi jiu.
E jendu jendu pe’ la strata e fora,
nci mbatti ‘na virgineda affritta e pia,
chi sula si ciangia la sua sbentura.
– Chi nd’ài tu, virgineda, e ciangi sula? –
– Nd’àju lu dragu chi mi dà la morti. –
– Sta’ ccittu, virgineda, e non ciangiri!
Lu dragu chi mangia a ttia l’ammazzu jeu. –
San Giorgi di la manu la pigghjau,
supa lu so’ cavadu la nchjanau.

(Preghiera della verginella)

– Ti pregu, Gesù meu, o mandi o veni,
o puramenti lu suli tratteni! –
Lu suli fu obbedenti e s’ammucciau
e santu San Giorgi lu dragu ammazzau.
Subbitamenti la nova jiu a lu re
ca la so’ figghja ricattau la morti.

(Parole del re)

– Jeu mò ti vogghju fari novu re
mu si’ patruni di tutti li regni! –

(Risposta di San Giorgio)

– No’ vogghju no’ to regni, no’ to dinari,
mancu fìgghja pe’ spusari.
Vogghju moriri cu’ felici parma
‘nterra lu corpu e mparadisu l’arma. –

Supa San Giorgi rosi e hjuri,
mparadisu jiu cu’ nostru Signuri.

Appena finì di cantare, guardando fiduciosa verso di noi, la nonna puntualizzò:
« San Giorgi è puru lu nostru protetturi. Ti lu ricordi, Mela? »
« Me lo ricordo, ma’, eccome se me lo ricordo! La festa ricorreva la prima domenica di luglio », rispose la figlia.
« Mo, mbeci, don ‘Geni e lu comitatu di San Giorgi la spostaru ad agustu pemmu nci la fannu vìdiri a tutti l’emigranti chi tornanu  a lu paisi pe’ li ferrii », spiegò la madre.
« Come vorrei esserci anch’io! Mi ricorda la fanciullezza, la fiera, la banda, i tamburini, i giganti, la processione, i cantanti, i fuochi d’artificio », disse con nostalgia la figlia.
« Cos’è la fiera? Cosa sono i giganti? », domandò subito Valentina.
« La fiera è il mercato paesano che richiama in gran numero venditori, acquirenti e curiosi da altri luoghi, anche molto distanti.
A Maròpati la fiera più importante è quella che si svolge il 13 dicembre in concomitanza con la festa di Santa Lucia », rispose con precisione la zia.
« Purtroppu chista fera non si faci cchjù comu prima; non si vidinu cchjù tutti chidi genti chi si partenu di lu Casali e di l’atri paisi  mu preganu a Santa Lucia; no’ mbennu cchjù li campagnoli mu vìndinu li capuni di Natali; non si senti cchjù la vuci di lu sensali chi cerca pemmu accorda li massari e non si organizzanu cchjù chidi jochi populari chi nd’allegravanu lu cori », notò nonna Teresa.
« I giganti sono un uomo e una donna di enorme statura, che vengono portati a spalla da due uomini robusti per le vie del paese. Il loro ballo con le vorticose giravolte in tondo, gli inchini, l’ avvicinamento e  il bacio finale rappresenta il trionfo dell’amore, raccontato proprio attraverso questa danza di corteggiamento », continuò a dire la zia, soddisfacendo la curiosità della nipotina.
« Sabatu e dominica lu paisi s’inchj tuttu di foresteri chi bennu pemmu vidinu la festa. Agustu è bicinu e, siccomu tandu siti ancora a Maròpatri, sicuramenti la viditi puru vui », aggiunse la nonna.
« E i fuocherelli di San Giorgio si fanno ancora? », chiese la figlia alla madre.
« A questo punto intervenni io: « Si, zia, si fanno ancora. Il popolo li accende la notte della festa cosiddetta “piccola” che cade il 23 aprile, data della morte di San Giorgio. Gli abitanti dei vari rioni si incontrano nel punto prescelto e danno fuoco a una montagna di fascine e di sarmenti secchi, raccolti nelle campagne nei giorni precedenti la festa e ammucchiati agli angoli delle strade, pronti per farli divampare.
E mentre decine di fuochi illuminano la notte di primavera, uomini, donne e bambini, riuniti intorno a essi, li attraversano, saltandovi sopra parecchie volte e, accompagnati dal suono melodico dei tamburi e dal battere delle mani, si abbandonano a risa sguaiate, a danze rusticane e a canti incomposti, brindando insieme e pregando per propiziarsi il Santo. »
La nonna aveva l’aria smarrita, come se si vedesse davanti a quei grandissimi falò a guardare fino a tardi il guizzare, il divergere e il crepitare delle fiamme, invase di scintille, che si sprigionano in un attimo dalla legna e si alzano fitte nel cielo, risplendendo sotto la luna.
Poi, fingendo di reggere con la mano un bicchiere colmo di vino, fece questo brindisi:

La luna è janca e vui brunetta siti,
ida è d’argentu e vui l’oru portati,
ida non ha sprenduri e vui l’aviti,
ida non avi luci e vui la dati:
Cu’ chistu vinu e chistu gran cuntentu
brindisi fazzu a vui, luna d’argentu.

 Mi intromisi ancora io nel discorso, dicendo:
« Sappiate che i fuochi sono ciò che rimangono degli innumerevoli riti propiziatori primaverili di antica memoria.
Questi rituali di purificazione per mezzo del fuoco, generalmente cerimonie di passaggio, sono caratteristici delle culture agrarie. Come il sole con i raggi, così il fuoco con le fiamme è il simbolo dell’azione fecondante, purificatoria e illuminatrice.
Il salto del fuoco per i Maropatesi acquistava la funzione di una vera e propria liturgia scaramantica, capace di allontanare tutti gli influssi negativi che, inesorabili, si abbattevano non solo sui raccolti e sulle attività economiche in genere, ma anche sulla vita sentimentale e la salute.
Ecco, allora, che le ragazze saltavano per trovare un buon marito, le madri per vedere finalmente sistemati i propri figli, gli uomini per avere la forza di lavorare e provvedere del cibo necessario alla vita della numerosa famiglia.
Tutto veniva offerto a San Giorgio  con la devozione semplice di chi sapeva chiedere un bene o ringraziare del voto compiuto col cuore sulle labbra e con le lacrime agli occhi, di chi non si vergognava di esternare la propria fede e i propri sentimenti alla vista di tutti, presentandosi a lui in spirito penitenziale.
Oggi questo rito pacifico non è più una forma di preghiera, ma un’occasione di incontrarsi, di scambiare due chiacchiere e di stare in armonia, essendo l’antico stato d’animo ormai scomparso, seppellito da ideali di effimere certezze e da un’ imperante aridità morale. »
Riprese a parlare la nonna che, con molta amarezza, disse:
« Nui anziani, àvi na para d’anni a chista parti chi  non simu cuntenti comu prima pecchì lu comitatu di la festa non porta cchjù la bbanda pilùsa. »
« Cos’è la bbanda pilusa? », chiese Valentina.
« La bbanda pilusa », le risposi, « è una banda composta di pochi elementi che vanno in giro per il paese, eseguendo pezzi musicali genuini che invitano al buonumore.
Essa veniva da Giffone ed era così chiamata  perché i sonatori facevano uso solo di pifferi, piattini e strumenti, fabbricati con pelli di pecora.
Il comitato organizzatore non ha alcuna colpa, se i componenti sono morti e la banda non c’è più. »
« E tu comu lu sai? », mi interrogò la nonna.
« Lo so per averlo letto nel libro Hiàcca l’arba del poeta giffonese Corrado Ettore Alvaro.
Nelle prime pagine della raccolta di poesie dialettali, che si leggono tutte d’un soffio, ce n’è una, in particolare, ricca di rievocazioni tenere e affettive.
Questa poesia, che s’intitola La bbanda pilùsa, ha avuto il Trofeo del Presidente dell’Amministrazione provinciale di Reggio Calabria al V Incontro  con la poesia in Aspromonte, organizzato dal Circolo Culturale Rhegium Julii nel 1983:

La bbanda pilùsa

Ajeri, mentri nc’era prucessioni
cu’ Ssa nGiuseppi chi ssi spassijava,
lu meu penzeru fici ‘n’attenzioni:
nc’era corcosa chi cca nnui mancava!

Mo, quandu è ffesta, no’ nzi senti cchjù
chidha bbanduzza chjamata pilùsa
cà lu maestru si ndi jiu a li fu…
Ma quantu idh’era allegra e assai curjîùsa!

Lu prevessuri, comu ‘nu cardidhu,
sonava cu’ ppipita canzunedhi.
Portava lu cugnomi di Ciridhu
e rallegrava a rrandi e cotraredhi.

‘Nturriva Peppi lu soi tamburinu
cu’ li mani juntandu li mazzola:
no’ nzi ‘mbrogghjava, m’era supraffinu:
ogni mmani paria ca si ndi vola!

Massaru Cìcciu la zzampogna unchjàva
sbertu di jìdita cu’ li linguedhi;
l’occhj chjudia, parìa ca si nzonnava
accarizzandu chidha vécchja pedhi.

E Tturicedhu ‘nturrìa la francàscia,
lu tempu accadizzandu a li canzuna.
La morti no’ nd’avìa mu ndi la spàscia;
la ggenti la cogghja ‘ntra li puntuna.

Chjovu(Vécchju) sonava li piattini
‘ntinnandu appressu di lu prevessuri.
Eranu canzunedhi ggenuini,
chi mmu li senti no’ nguardavi l’uri!

E ccincu eranu tutti li ‘limenti
chi ccumponenu chidha bbandicedha.
Sonavanu, cu’ ttanti torcimenti,
rallegrandu la strata e la vinedha.

La morti ndi spasciau ‘sta meludia
chi, ‘ntra lu cori, dava cuntentizza.
Ormai squagghjàu, moriu la pojsia!
La prucessioni è mmuta d’allegrizza!

Uscimmo di casa per andare a Messa, scendendo prima per una tortuosa stradina, poi, seguendo la strada principale, nella vicina chiesetta di San Giovanni Battista.
Ricordo che, durante l’omelia, don Valentino, avendo notato che i giovani della parrocchia non frequentavano più la Messa domenicale, dopo una notte passata in discoteca, invitò le famiglie ad assumere l’impegno della loro educazione alla fede e alla esemplarità della vita.
Ritornati a casa, in attesa di pranzare dalla zia che, per l’occasione, aveva invitato la figlia Patrizia con la famiglia, volli dare un’occhiata al panorama che si vedeva da Quarto Alto, dal terrazzino del suo appartamento.
Le case erano illuminate dal sole che irradiava chiaro dalla collina dietro il ponte dell’autostrada.
In mezzo al mare, liscio come una tavola, scivolavano piccole barche a vela che offrivano ai villeggianti della domenica l’emozione e il gusto dell’avventura.
Alcuni gabbiani si abbandonavano all’ebbrezza del vento, altri si tuffavano a gara capofitti, afferrando i pesci che comparivano a fior d’acqua.
Mi sembrava di essere sulla spiaggia, di sentire il respiro del mare, il suo frangersi lungo il litorale, di ammirare le pennellate di tutte le sfumature del blu che lambiscono le case sulla costa da Cogoleto a Sori, lo sfondo romantico di certi angoli in cui la vegetazione mediterranea sembra specchiarsi nelle acque trattenute da ripide scogliere: un quadro, quello del Golfo di Genova, che nessun pittore avrebbe saputo dipingere perché opera di una natura che ha dato il meglio di sé.
Più vicino si sentiva il rumore degli automezzi che sfrecciavano sul Corso Europa, lontanissimo dalle strade del Centro, sempre affollate di gente che cammina freneticamente, come incalzata da un destino ineluttabile. Dai terrazzi e dagli orti vicini un venticello pulito portava, a tratti, un delizioso profumo di fiori e di erbe aromatiche.
Rientrato in casa, manifestai tutta la mia ammirazione per Genova e per la Liguria. Valentina, che era tutta orecchi, non appena mi sentì, recitò ad alta voce questa poesia:

E’ la Liguria una terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla pulita
s’avvivano di pampini al sole.
E’ gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fonde valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.

 In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a essere varate!
O aperti ai venti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore.

Mi complimentai con lei e le chiesi dove e quando l’avesse imparato.
« A scuola, un paio di mesi fa. La maestra ce l’ha fatto studiare pure a memoria  », rispose.
« Ma tu sai chi l’ha scritto? », continuai.
« Non ricordo », rispose dispiaciuta.
« Vincenzo Cardarelli », l’ informai, « che non era ligure, ma laziale. Era nato a Tarquinia nel 1887. Fu poeta e scrittore molto sensibile alle condizioni di angoscia e di smarrimento dell’uomo moderno. Di ispirazione neoclassica, si rifaceva al Petrarca e al Leopardi. Scrisse varie raccolte di liriche, tra le quali Viaggio nel tempo, Il sole a picco e Solitario in Arcadia. Fondò la rivista letteraria La Ronda. Morì a Roma nel 1907. »
« Nella poesia sono menzionati i pampini. Cosa  sono? », le chiesi.
« Non lo so », rispose.
« Sono le foglie delle viti », le spiegai.
« E il maestrale? », le chiesi ancora.
« Questo lo so », rispose tutta contenta. « E’ un vento freddo che soffia dal Nord. »
Poi continuai così: « Della Liguria ci parla anche il livornese Giorgio Caproni, una delle voci più significative della poesia contemporanea. Ma è per Genova, la città dove la famiglia si era trasferita quando lui aveva appena dieci anni, che egli scrive i suoi versi più profondi e più belli, che farebbero esistere persino una città mai esistita: Genova tutta la vita. / Mia litania infinita.
Nel suo vagabondaggio sostò a Genova anche il poeta Dino Campana, nato a Marradi, sull’Appenino tosco-emiliano. Colpito dalla città, dal suo porto, dalle sue donne e dalle sue piazze, scrisse una serie di liriche, tra le quali si distingue quella dedicata alla Piazza San Giorgio, che dilaga verso il mare aperto con tutti i suoi rumori e con la luce festosa che irraggia dal suo antico palazzo. »
Valentina ascoltava, ma mi accorsi che era un po’ confusa, allora smisi di parlare e di farle altre domande.
Dalla cucina, intanto, giungeva un odore piacevole che stuzzicava l’appetito. Il pranzo era pronto. La zia ci invitò a prendere posto intorno alla tavola sulla quale, aiutata dalla figlia Patrizia, portò  piatti semplici e deliziosi: crostini e frittelle per cominciare, poi pasta condita con tocco di carne, pane, vino rosso del Piemonte, frutta di stagione e alla fine una torta con le mele gustosamente realizzata dal suo estro.
Consumato il pranzo, Valentina andò a gettarsi  sul divano e, guardando la tivù, a poco a poco si appisolò.
Per non svegliarla, tutti gli altri smettemmo di conversare e uscimmo dalla stanza, camminando piano in punta di piedi.
Appoggiati alla ringhiera del terrazzino, guardavamo in silenzio la strada, le case e l’immensità del mare.

 

Cap. 2: Sul treno

Alle venti e trenta lasciammo Quarto. Per chi non lo sapesse, Quarto è il luogo come ci racconta il cronista Giuseppe Cesare Abba da dove, il 5 maggio 1860, partì la spedizione dei Mille con il fine di sostenere l’insurrezione scoppiata in Sicilia contro i Borbonici.
Ci accompagnarono alla stazione di Brignole lo zio Leonardo e i cugini Lucio e Patrizia, rispettivamente nonno e genitori di Valentina.
Il treno tardava ad arrivare, poi giunse, rallentò la corsa e si fermò luccicante sul primo binario.
Non c’era la folla ondeggiante di altre partenze, di solito concomitanti con lunghi ponti o feste, ma tutt’e tre gli uomini facemmo ugualmente fatica a trasportare più avanti le valigie e le borse da viaggio.
Saliti su una carrozza di seconda classe, ci collocammo nel primo scompartimento dove, per fortuna, c’era solo una persona:  un giovane professore di lettere che tornava in Calabria dopo aver terminato come commissario gli esami di Stato nell’Istituto tecnico nautico San Giorgio. Una scuola non più a indirizzo esclusivamente navale e quindi rivolta in prevalenza agli uomini, bensì moderna, aperta ai grandi problemi del mare, alle nuove professioni e alle esigenze del futuro che vedono protagonisti sempre di più in ogni settore uomini e donne.
Valentina, affacciata al finestrino, non appena il treno si mise in movimento, salutò con grandi gesti della mano i genitori e il nonno.
Fino alle ventidue si parlò del più e del meno. Valentina, dopo aver sfogliato un giornale a fumetti e osservato le fotografie delle quattro città italiane, appese alle pareti, si appoggiò alla nonna, ascoltando per un po’ la radiolina con l’auricolare.
Poi, desiderando avere notizie del paese, di cui aveva sempre sentito parlare in casa, e della terra che andava a visitare, ci chiese:
« Il vostro paese è grande o piccolo? »
« Piccolissimo », le risposi . « Credo che con la frazione Tritanti conti poco meno di duemila anime che vivono sulla sommità di due colline nella Piana di Gioia Tauro.
« Il paese », scrive Piromalli, « sorge su una piccola striscia di terra particolarmente erosa, rifilata e scoscesa tra le valli dell’Eja e di Jola, a 239 metri sul livello del mare.
La sua storia è quella di un casale rurale, pastorale e agricolo, sorto in territorio già megaloellenico.
Per la sua posizione Maròpati fu uno dei luoghi di richiamo di genti in movimento, Locresi che, scendendo dalla Limina, giungevano a Cinquefrondi, passando per Maròpati per arrivare a Medma, e  da qui, superato il Mèsima attraverso la risalita per Mileto vecchia, a Vibo Valentia, e molto più tardi Albanesi che vi abitarono fino al 1600, così spesso centrifughe in Calabria per motivi diversi.
Il territorio fu continuamente attraversato da mercanti, vasai, coroplasti, artisti immigrati con prodotti finiti o semifiniti che più tardi vennero creando maestranze locali, elaboratrici di un loro particolare gusto estetico.
La popolazione, piuttosto scarsa durante la dominazione romana e la lunga e lenta penetrazione bizantina, divenne più numerosa intorno al 950,  quando vi giunsero abitanti arretrati dalla costa ionica e da quella tirrenica per sfuggire alle incursioni e ai saccheggi dei Saraceni.
Per secoli feudatari e borghesi affaristi e disonesti esercitarono il potere con la violenza, inselvatichendo e inferocendo nei costumi la piccola comunità rurale, già tanto provata da sventure che giungevano puntualmente con effetti a volte catastrofici.
Le sole forme di liberazione erano costituite dalle feste religiose e dalle fiere che richiamavano due volte all’anno numerose persone dei paesi vicini. »
Divenuto comune libero nel 1811, Maròpati vantò il suo bel municipio, l’illuminazione, il cimitero, le fontane civiche, la caserma, la farmacia, l’ufficio postale, le scuole, l’asilo, il campo sportivo, la guardia medica e la piscina: strutture e servizi che lo hanno fatto diventare sempre più bello e moderno.
Il paese è noto per aver dato i natali, nel 1903, a Fortunato Seminara, il maggiore rappresentante di una corrente minore di ascendenza realistica, volta a descrivere il nostro mondo contadino, primitivo, sensuale e violento.
« Lo conosci? Te ne ha parlato qualcuno? », chiesi a Valentina che mi seguiva con attenzione.
« No, nessuno me ne ha parlato », rispose.
« Un giorno ti porterò a visitare la sua tomba nel recinto dedicato alla memoria degli scrittori », promisi.
E continuando: « Il paese è anche noto per il fenomeno della lacrimazione di sangue  della Madonna del Rosario, verificatosi nel 1971 in Casa Cordiano.
Dal sangue, sgorgato dal vetro di un quadro a stampa della Madonna, si sono formate delle croci che sono state trovate oltre che sul muro vicino, anche su carta, cotone e fazzoletti.
Tra i numerosi pellegrini, giunti a Maròpati per implorare la Madonna, molti hanno ottenuto grazie e guarigioni miracolose. Le loro testimonianze si possono leggere nel libro di Giovanni Mobilia, intitolato Trent’anni di prodigi.
Sull’eccezionale avvenimento regna il mistero. E il silenzio da parte della Chiesa che deve ancora verificare. Tuttavia qualche interpretazione è stata data. La Madonna ha pianto, in quanto sofferente per un’ umanità sempre più dissennata, senza amore e senza Dio, piena di odio e di vendetta. »
Valentina, non avendo alcun interesse a fare domande sull’argomento, disse:
« Allora non ci sono palazzi, negozi, giardini e strade ampie e lunghe come quelle che ci sono a Genova, e non c’è  il mare, non c’è il porto, luogo d’arrivo e rifugio per i marinai! »
Il professore, ricordando di avere letto queste notizie su Genova in un opuscolo pubblicato in italiano e in altre lingue dall’Azienda Promozione Turistica qualche giorno prima di lasciare la città, disse:
« Genova è un’altra cosa, un’altra realtà. E’ una città dai mille volti, abbagliante e misteriosa, da scoprire senza fretta. E’una città operosa perché da secoli è centro di notevoli attività produttive, commerciali e culturali. E’ una città ospitale per il clima dolce e per le moderne e rinnovate strutture alberghiere, congressuali ed espositive. E’una città splendida  per le case, le torri, le chiese e le vie rinascimentali che ricordano il secolo d’oro dei Genovesi.
Notevoli opere d’arte, preziosi reperti archeologici ed etnografici, interessanti oggetti navali formano le raccolte dei musei della città, ospitati in fastosi palazzi nobiliari, edifici religiosi e storiche ville in mezzo ad alberi rari che si trovano nell’area urbana tra Nervi e Pegli.
Luoghi da visitare e ammirare, oltre al palazzo Ducale e al palazzo San Giorgio, sono i palazzi medievali dei Doria, la cattedrale di San Lorenzo, la casa di Cristoforo Colombo, la piazza De Ferrari, porta Soprana,  il teatro “Carlo Felice”, il complesso fieristico alla foce, i centri direzionali di corte Lambruschini, il cimitero di Staglieno e i carruggi, le strette e tortuose stradine intense di memoria che si snodano chiuse da alte case nel cuore del centro storico, appresso al mare. »
« Non deve », disse ancora il professore, « chi ha la fortuna di andare a Genova, lasciarla prima di aver visto la cerchia dei forti che cingono la città; essere andato a Boccadasse, il caratteristico porticciolo marinaro; salito sulla funicolare del Righi per ammirare la città dalla torre della Lanterna; aver fatto il giro del porto in battello con partenza dalla stazione marittima; ammirato il mare dalla passeggiata di Nervi; gustato la farinata, il piatto tradizionale a base di farina di ceci, olio extravergine d’oliva, acqua, sale e pepe, e la torta pasqualina, fatta di pasta sfoglia ripiena di verdure varie, formaggio, uova, burro e pepe.
La Liguria è anche una regione di marinai che vanta numerosi piatti a base di pesce: basta ricordare il cappon magro, un’insalata che unisce alle verdure le acciughe, le aragoste, i filetti di vari pesci e perfino le gallette.
Infine, senza aver fatto un’escursione alle Cinque Terre con il loro prezioso Parco Nazionale e una visita ai borghi medievali dell’entroterra che si inerpicano in gradinate su per i pendii: da Campo Ligure a Torriglia, da Busalla a Tiglieto, da Fontanigorda a Savignone.
Anche dal punto di vista storico, religioso e culturale la città ha sempre avuto un ruolo di primo piano attraverso i suoi figli più illustri: oltre a Cristoforo Colombo e a Giuseppe Mazzini, sono di Genova il musicista Nicolò Paganini, il patriota Goffredo Mameli, Giovanni Ansaldo, pioniere dell’industria cantieristica italiana, i santi Siro e Caterina, gli artisti Cambiaso e De Ferrari, lo scrittore Leon Battista Alberti, i poeti Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale, per citare i più noti. »
Ascoltata l’ottima e puntuale esposizione sull’argomento, spegnemmo la luce e ci preparammo ad affrontare la lunga notte. Prima chiuse gli occhi Valentina, poi ad uno ad uno ci addormentammo tutti gli altri, nonostante il dondolare e lo sferragliare della carrozza.
Arrivammo a Napoli che era ancora notte. Le grida di due venditori che invitavano a far colazione svegliarono tutti tranne Valentina che, rannicchiata accanto alla nonna, dormiva d’un sonno profondo.
Facendosi largo tra i passeggeri, salì per primo sul treno il più giovane dei venditori che, camminando con speditezza lungo i corridoi delle carrozze, strillava: Caffè alla napoletana! Chi vuole un caffè alla napoletana!
Il professore ordinò una tazzina di quel caffè odoroso e, sorseggiandolo pian piano, trovò piacere.
« E voi, non lo prendete? », disse il giovane, rivolto agli altri.
« No, grazie. Noi abbiamo il thermos pieno di caffellatte », rispose la zia.
Nella stazione, intanto, altre persone si accingevano a salire sul treno, offrendo sigarette e bigiotteria a pagamento. Con il loro vociare vispo e diffuso, caratteristico dei Napoletani, esse esprimevano un’ umanità che ha sempre qualcosa di vibrante, di autentico, di inconsueto.
Il professore, dopo essersi pulito le labbra con un fazzolettino di seta, disse:
« A Napoli il caffé è una mania collettiva e come tutte le tradizioni ha i suoi riti », spiegano Biagio Coscia e Flaviano De Luca, autori di Napoli, la più recente guida della città. « Metropoli in bilico tra Oriente e Occidente, Napoli è una città da “sentire” più che da vedere: passeggiando senza un programma preciso, lasciate che sia lei a guidarvi tra vicoli e chiese barocche, tra chiostri e scorci irresistibili, tra catacombe e mercati brulicanti, in un percorso fatto di luci e di ombre, di attrazioni e di repulsioni, di profumi mai sentiti altrove.
Tutto questo a pochissima distanza in linea d’aria non soltanto dallo splendido Golfo che ha ispirato il mito di Partenope, innamorata di Ulisse, ma anche dal Castel Nuovo, noto come Maschio Angioino, dal teatro San Carlo, dallo storico caffè Gambrinus e da tante cose di antica eleganza.
Nella città si svolge la notissima festa di Piedigrotta, per la quale sono state composte alcune tra le più belle e malinconiche canzoni napoletane.
Come non ricordare, poi, il teatro popolare e dialettale che ha il suo simbolo nella simpatica maschera di Pulcinella, sempre capace di superare gli ostacoli, le oppressioni e le sofferenze, grazie alla sua gran gioia di vivere!
Inevitabile, quindi, innamorarsi anche della cucina, della pizza piegata a libretto e dei suoi piatti fantasiosi dal sapore intenso come gli spaghetti con i lupini o la pasta cresciuta con le alghe.
Insomma, trascorrere un fine settimana fuori stagione in questa città bella e dannata, sempre sull’orlo dell’abisso e sempre in grado di risorgere dalle sue ceneri, significa scoprire, come notava Goethe nelle sue Lettere da Napoli, nel 1787, che comunque la si descriva, la si racconti, la si dipinga, Napoli supera sempre ogni aspettativa. »
Peccato che nell’oscurità della notte non si potevano ammirare il mar Tirreno e le pianure dai toni multicolori che per la fertilità dei suoli, dovuta ai terreni di origine vulcanica, furono denominate dai Romani Campania felix; l’inconfondibile profilo del Vesuvio dal caratteristico rilievo conico; i piccoli e coloratissimi paesi della Costiera Amalfitana; nonché l’isola di Capri, una delle più celebri del mondo, grazie alla dolcezza del  suo clima e alla bellezza del suo mare, nel cui fondo si aprono i riflessi azzurro verdastri delle acque!
« Napoli, l’ultima grande città d’Italia. Un viaggiatore francese, Augustin Creuzè De Lesser, così scrive  nel suo Viaggio in Italia e in Sicilia nel 1801 e 1802:  “L’Europa finisce a Napoli e vi finisce pure assai male; la Calabria, la Sicilia, tutto il resto è l’Africa!”.
Ma  eravamo all’inizio dell’Ottocento. D’allora quante cose sono cambiate! Che il viaggiatore, avendo abbandonato questa vita, non ha potuto vedere e registrare.
La Calabria non è più una regione aspra e selvaggia, povera e depressa. Tantomeno la Sicilia. Che vengano ora gli stranieri a visitarle! Si renderanno conto che le condizioni ambientali e di costume non sono più quelle di una volta. Si renderanno conto che, superate le ansie di giustizia sociale, senza più vivere e soffrire il dramma della miseria e della fame, dell’emigrazione per motivi di lavoro e dell’emarginazione, senza più realtà dure e credenze minacciose, esse si protendono belle, fertili, generose, originali e dotte nel mare Mediterraneo, dove per secoli si è svolta la storia del mondo. »
Non ebbe tempo di finire quest’altra dotta dissertazione che un altro giovane, venditore di giornali, si avvicinò al finestrino, strillando:
« Giornali, signori! Comprate il Mattino, signori! »
Comprammo una copia del grande quotidiano di Napoli e all’interno, in primo piano, leggemmo una di quelle notizie preoccupanti che balzano subito agli occhi: Nuovo agguato camorristico in pieno centro cittadino.
Il professore e io ci guardammo dritto negli occhi, ma nessuno dei due ebbe voglia di far commenti. Io andai con la mente alla Mafia e alla ‘Ndrangheta, ai delitti del generale Dalla Chiesa e dei giudici Falcone, Borsellino e Scopelliti. Di Paolo Borsellino, in particolare, mi venne in mente l’ultima intervista televisiva. Non dimenicherò mai quel viso triste, quelle parole appena percettibili, pronunciate da un uomo che sapeva di morire da un momento all’altro.
Dopo alcune ore di viaggio arrivammo in Calabria. Un paesaggio bellissimo si presentò ai nostri occhi: mare cristallino, sole chiaro, spiagge lunghe e piatte di sabbia fine, affacciate su insenature profonde, protette da scogliere.
Lungo la costa la Calabria è la tavolozza di un Mediterraneo solare e luminoso. Tinte forti di un Sud profumato di zagare e gelsomini, rischiarato dal sole di un’estate che ancora a ottobre è tiepida e non accenna a finire.
Ma il fascino di questa regione non è tutto racchiuso nelle bellezze dei suoi scenari più conosciuti.
La Calabria, terra di colori decisi e di sapori robusti, non rischia affatto di annoiare con un monotono ripetersi di paesaggi e atmosfere. Anzi. Ciò che colpisce sono i mille volti di una regione sempre pronta a regalare inattesi contrasti.
All’improvviso, tutti fummo colpiti dall’entusiasmo con cui nonna Teresa recitava questa poesia:

Terra mia bella di sprenduri anticu,
Cristu cchjù bella no’ ti putia criari:
Lu suli ti calìa comu ‘nu ficu,
t’abbasanu e t’abbrazzanu ddu mari…

« Chi è l’autore di questi versi così belli? », chiese il professore.
« No’ lu sàcciu, professuri meu. Li lejìa ‘nu jornu ‘ntra’nu libbru ch’era sutt’a idi e, siccomu mi piaciru assai, mi li ‘mparai  a memorria », disse la nonna, indicando me e mia moglie.
« Me lo ricordo, nonna, confermai. » « Ricordo anche che era il giorno di Natale. Nella e io vi avevamo invitato a pranzo e voi, prima di andare via, ce lo avete chiesto per portarlo a casa.
Era il poemetto in vernacolo Calabria mia del poeta-avvocato Pasquale Rombolà, di San Ferdinando. L’autore, oltre a descrivere le bellezze naturali della nostra terra, ne fa una storia dall’antichità ai nostri giorni con occhio critico e poetico. »
Conoscendo l’eccezionale capacità memorizzante della nonna, che è una caratteristica di molti nostri anziani, l’invitai a continuare e lei, integrando la voce e la mimica, recitò queste altre quartine, tutte con le  rime alternate secondo una delle caratteristiche di gran parte della poesia moderna:

…Pari ‘nu truncu i ceuzu agghimbatu,
longu e turciutu di ‘nu strangugghjuni,
chjnu di gruppa e tuttu stortigghjatu,
chjnu di munti, marini e timpuni.

Tu, cuntegnosa nta lu to’ duluri,
arridi sempri ad ogni foresteri.
Pingiri non ti poti ‘nu pitturi
cà hai culuri di milli maneri.

Tu alloggi certu li quattru staggiuni,
diverzamenti non si po’ spegari.
D’imbernu  si puru carrica di hjuri,
cumincianu a hjuriri ‘i ‘mmendulari.

La nivi priandola a la muntagna
si fa cudittiari di lu suli.
P’abiti chist’amuri è ‘na cuccagna:
s’alleggianu di pisu e di duluri.

Lu giallu di l’arangi e mandarini,
l’argentu cottu poi di l’alivari
formanu ‘nu vancali a li marini;
ô ventu ‘ndranghitìanu li parmari.

‘Mbìlicu supa ‘i costi li pittari,
lu coriu duru cchjù di ‘na hilona,
si guardanu e si specchiianu ‘nta mmari,
mentri cchjù bbasciu ancora l’unda sona.

A primavera poi non nc’è chi diri!
Nissunu pi’ bellezza pò ‘guagliari;
si non ti vidi, nudhu pò cridiri;
hjàuri comu rigina orientali.

Di zaghara si’ chjna e si’ ‘mbriaca,
hjauri di ginestra e gersuminu.
Lu venticedhu ti faci la naca
comu la mamma cu lu so’ bambinu.

‘Nta ‘stati sembri ‘na carcara ardenti,
la piria non ti faci respirari.
A li marini ammassanu li ggenti:
trovanu rifriggeriu ‘nta lu mari.

All’ottobbrata poi si’ perla fina,
l’Iridi pi vergogna non nci appari.
Li timpi su’ parati di rocina,
lu mari avi culuri belli e rari…

« E’ una poesia ricca di suoni, di forme, di colori e di amore per la propria terra d’origine. Anche a Reggio Calabria ci sono bravi poeti dialettali », disse il professore, « capaci di fustigare, con versi dal taglio appassionatamente epigrammatico, i molti vizi che dilagano nella città: la boria, la cattiveria, l’invidia, la balordaggine, la mediocrità, l’incapacità di iniziative serie.
I poeti dialettali in Calabria sono numerosi, ma i critici hanno preso in esame e giudicato solo le opere letterarie di pochi. E’ tuttavia positivo che si sia parlato di loro. La poesia popolare è venuta, così, ad acquistare una sua dignità accanto alla poesia cosiddetta aulica: perché la poesia non ha confini o barriere e contiene dentro di sè toni universali. »
« Il Signore fece la Calabria più bella della California e delle Hawaii », dissi poi alla nonna, ricordando una frase di Leonida Repaci.
La nonna approvò, senza sapere che essa continua così:… « ma il Diavolo, dispettoso e geloso, si adoperò ad arrecarle tutti i mali possibili, tra cui il terremoto, la malaria, le alluvioni, la siccità, l’analfabetismo, la miseria, la violenza, la necessità sempre crescente di case, di scuole, di acquedotti, di strade.
E a coronamento di tutto, una carenza storica di giustizia sociale. Così le grandezze e le glorie storiche sono rimaste sopraffatte dalla realtà dell’oggi, amara e pressante, unica dimensione presente alla gente calabrese, che della suppellettile storica d’una grandezza e d’uno splendore sopravvissuti nei libri, non sa cosa farsene, se pure nella stragrande maggioranza addirittura non la ignori. »
« La decantazione delle bellezze naturali », scrive in un saggio critico il direttore de La Procellaria Francesco Fiumara, « trascina il Repaci ad aperture di grande entusiasmo  e di esaltazione, come chi, in una pausa di riposo e di affrancamento respira a pieni polmoni e raccoglie con lo sguardo visioni di beatitudine e di esultanza; ma ciò non significa che questo appagamento panico sia velo d’oblio per l’altra parte di realtà amara che da secoli incombe sulla gente del Sud. Qui anche le sofferenze degli uomini, stigmate eterne di un destino storico mai scontato, costituiscono per il Repaci oggetto di gravi considerazioni, di tristi resoconti e primati, che scaturiscono dai secolari abbandoni in cui questa terra fu sempre tenuta, sia dalla inettitudine dei notabili locali, sia dalla incuria interessata dei governi centrali. »
« Tutte le volte che ritorno in Calabria provo l’impressione che debba succedere qualche cosa di enorme, come un atto di violenza combinata tra la collera della terra abbandonata senza difesa alla furia degli elementi, e la collera della povera gente, stanca di essere tradita nella sua attesa, arrivata al limite dell’umana sopportazione », sottolinea ancora Repaci.
Valentina, intanto, ci chiedeva notizie dei primi centri abitati. Il professore, che era seduto accanto a lei, non appena la sentì, aprì la borsa da viaggio e vi prese un libro.
« Lo porto sempre con me », disse, « S’intitola Incontro con la Calabria. E’una guida turistica generale dell’editore reggino Domenico Laruffa. Vi leggerò solo le pagine che parlano dei paesi che incontreremo da qui in avanti. »
Valentina si avvicinò al finestrino e, tenuta stretta alla cintola dalla nonna, si mise a guardare il mare e i paesi situati lungo la costa.
Il professore cominciò con Praia a Mare, il primo centro abitato che si incontra, entrando in Calabria; continuò con  l’antica Scalea, aggrappata alla collina, e la nuova, con gli alberghi e i lidi  su un mare bello e pulito; Diamante, interessante stazione balneare; Cetraro Marina, situata su una ristretta pianura verde di piante di cedro; Fuscaldo e Paola, paesi dalle origini remotissime.
Tra Paola e Lametia Terme sorge Amantea, in pittoresca posizione con la parte moderna distesa lungo la costa e il centro abbracciato dagli edifici più antichi.
Il treno, dopo aver percorso alcuni chilometri tra la fascia litorale e le colline dolcemente ondulanti, ci portò a Lametia Terme, da dove riprese a marciare verso le nove.
Procedendo lentamente, con il sottofondo ritmico del tutum tutum, che cullava i passeggeri assonnati, si fermò alla piccola stazione di Pizzo Calabro.
Subito dopo Pizzo sorge Vibo Valentia Marina, incantevole e tranquillo centro marittimo, peschereccio e turistico, e alla sua sinistra, salendo da Sant’Onofrio, Vibo Valentia, l’antica Hipponion, importante colonia della Magna Grecia e poi dei Romani come ci informa lo storico Tito Livio, vissuto all’epoca di Augusto.
Da Vibo Marina, percorrendo il tratto settentrionale del promontorio di Capo Vaticano, si fanno ammirare le bellle spiagge di Briatico, Zambrone e Parghelia. Si tratta di stazioni balneari di primaria importanza, rese interessanti da un retroterra collinare coltivato a orto, vite, cipolle, fiori e ricco di tradizioni e cultura.
A Briatico operò e visse Raffaele Lombardi Satriani, l’illustre antropologo che fece del suo paesino il centro nevralgico degli studi sul folclore calabrese.
Il Satriani raccolse personalmente migliaia di canti popolari, leggende, racconti, proverbi, che pubblicò nella sua monumentale opera Biblioteca delle tradizioni popolari calabresi.
La marina di Zambrone, in particolare, ha avuto in questi ultimi anni un rapido sviluppo turistico, grazie all’Aquapark, un moderno parco di divertimento all’aperto, dedicato ai bambini e agli adulti che li accompagnano.
Indiscussa primadonna  del promontorio di Capo Vaticano  è, però, Tropea, sospesa sopra un mare di incredibile color turchese, dove si rincorrono piccole cale separate da sporgenze di roccia.
Da qui si raggiungono le spiagge dorate e i villaggi sgranati di Capo Vaticano, celebre  promontorio il cui nome – da vaticinium – ricorda che fu dimora di un oracolo celebre per i suoi responsi in tutta la Magna Grecia.
In quest’angolo tra i più integri e attraenti della Calabria il mare ha colori straordinari con alte scogliere a chiudere piccole cale a quarto di luna e profonde insenature tra faraglioni e brevi spiagge, raggiungibili solo in barca o con faticosi sentieri tra arbusti e fiori selvatici.
Poco più a sud, a 15 km da Capo Vaticano, ai piedi del l’altopiano del Poro, sorge Nicòtera, arroccata su un costone roccioso, dal quale si gode uno dei più incantevoli paesaggi che la Calabria offre alla vista.
In incantevole posizione, incastonata nell’estremo lembo settentrionale della Piana di Gioia Tauro, sorge Marina di Nicòtera, prevalentemente abitata da pescatori e da contadini.
I villaggi Sayonara, Mimosa, Sabbia d’oro e Valtur, sorti in una delle zone più suggestive della costa calabrese, sono luoghi di grande turismo balneare, oasi di verde e di pace, specie in autunno, quando le folle estive sono ripartite e l’acqua del mare invita ancora a fare il bagno. »
Nel giro di pochi minuti oltrepassammo il ponte sul Mèsima e, seguiti dallo sguardo incuriosito di alcuni contadini, fermi in mezzo a un orto di cocomeri, arrivammo alla stazione di Rosarno, uno dei centri agricoli più importanti della zona.
La cittadina accoglie ogni anno, anche se non sempre con animo favorevole, migliaia di stranieri che hanno abbandonato i loro paesi per sfuggire a situazioni avverse e insostenibili.
Alcuni di loro abitano in centro, altri  in periferia o in casolari di campagna, senza elettricità e acqua corrente, dove conducono una vita di isolamento e di sacrifici, consapevoli del difficile problema di integrazione economica, sociale ed etnica.
In questa lirica di Francesco Scattarreggia, tratta dalla silloge Margherite, si focalizzano con tenerezza e rispetto alcune movenze di questi giovani vigorosi, dal corpo levigato, nero come quello di una statua d’ebano, regale, senza tempo:

Upim

Gocciolano di pioggia
con bagliori di luce pura
le vostre tute cerate
presso gli scaffali
e mani dure
screpolate
carezzano il formaggio
e la gassosa.
Solidi e alti
come bronzi scuri
vi soffermate sulle minestrine,
pacati e stanchi.
Osate la salsiccia
con ritegno,
la pera, un pomodoro
e poi vi consultate…!
Odo voci e sorrisi
di remote lontananze
dove il deserto avanza
ed il fucile tuona.
La mamma e la sorella
col bambino,
accovacciati nella povertà,
seguono i vostri passi
nell’attesa.
Pacato e stanco
per le mie bisacce
leggo i vostri pensieri,
lieto e confuso
di pace e di speranza.

Prima di scendere dal treno, salutammo il professore che proseguiva il viaggio fino a Reggio Calabria.
Un attimo prima aveva regalato a Valentina il libro Incontro con la Calabria, dicendole: « Prendilo! Ti sarà utile durante le vacanze. All’interno si può leggere di tutti gli altri nostri paesi. »
Valentina lo aveva ringraziato e, senza che lui se lo aspettasse, gli aveva dato anche un bacio innocente sulle guance.
Nel piazzale della stazione, appoggiato sul cofano della macchina, ci attendeva mio figlio Giuseppe.
Il viaggio era stato lungo e faticoso, ma fummo ricompensati dalla nostra terra. La Calabria fin lì ci aveva regalato paesaggi straordinari, senza quelle lunghe e brutte gallerie, impenetrabili dalla luce cristallina del sole che imprime il suo marchio su ogni cosa. Anche sull’ombra.
Dopo aver sistemato alla svelta le valigie nel portabagagli, salimmo in macchina e partimmo per Maròpati.

 

Cap. 3: Le contrade: Rotonda e Mario

Lungo la strada del ritorno ci fermammo alla Rotonda, piccola contrada ai piedi di San Fili, dove la zia aveva trascorso con la famiglia il tempo felice dell’ infanzia.
Rivedendo la casetta, il focolare e il forno a legna, che serviva per cuocere il pane  e per seccare i fichi, provò subito una sensazione piacevolissima e memorabile: il gusto dei fichi maturi, adagiati su una fetta di pane di granturco, appena sfornato.
La nonna ogni dodici quindici giorni faceva anche la pizza, condita con olio, sale e pomodoro, e per la sorella Vincenzina, che era un po’difficile, una più piccola, condita con pelle di maiale, bollita nello strutto.
Il maiale era sinonimo di abbondanza. Dice il proverbio: « Cu si marita è cuntentu ‘nu jornu / e cu ammazza lu porcu è cuntentu ‘n’annu. »: Chi si sposa è contento un giorno / e chi ammazza il maiale è contento un anno. E un altro: « Di Lardaloru / cu no’ nd’àvi carni s’impigna ‘u figghjolu »: Di Giovedì grasso chi non ha carne di maiale per confezionarla in salumi, dà in pegno, cioè manda a servizio il figliolo presso i ricchi possidenti che lo possono provvedere del necessario.
La zia rivide anche il canalone e si ricordò di quando, mentre giocava a nascondino con suo fratello, scivolò e per poco non  annegava. Un momento impercettibile dell’infanzia, mai completamente dimenticato.
E più oltre, sulla strada interpoderale per Anoia, il pozzo del Cannitello, dove andava ad attingere acqua, e verso il lato più alto del podere l’oliveto dei Nicoletta, dal quale proveniva un rumore, ignoto a Valentina.
« Cos’è questo rumore? », chiese Valentina.
« Sono le cicale, ma questo lungo e ossessivo limìo che d’estate si ode tutt’intorno in continuità è opera del maschio »,  risposi.
Prima di riprendere il viaggio, la zia notò che non c’erano più i gelsi piantati dal padre per l’allevamento dei bachi da seta.
« Qui c’era un gelso grande e ombroso », sospirò la zia, indicando l’angolo della casetta.
« Un gelso? Cos’ è? », chiese ancora Valentina.
E la zia: « E’ una pianta appartenente al genere delle moracee, di cui sono note, soprattutto, le specie gelso bianco e gelso nero; da noi era largamente coltivato il primo perché le sue foglie tritate costituivano il nutrimento del baco da seta.
Ricordo che nella casetta la nonna allevava i bachi con una partitara. Il seme si chiamava cocciu; il baco nurrimi; le foglie del gelso costituivano la notricata.
Dopo tre giorni e numerosi movimenti del capo i bachi formavano i bozzoli che, raccolti e conservati, venivano venduti a persone provenienti dai centri più importanti della produzione e del commercio della seta in Calabria, disseminati tra Villa S. Giovanni e Catanzaro.
Per noi riservavamo solo una piccola parte della produzione, quella rappresentata dagli scarti.
Il baco era considerato un amico, una ricchezza in mezzo a tanta gente che languiva nella miseria. La nostra famiglia, però, non era povera. Possedevamo più di un podere non lontano da Maròpati e mio padre lavorava nel Consorzio di bonifica della Piana di Rosarno.
Agli amici e ai conoscenti di passaggio, che si fermavano alla Rotonda per farci visita, offrivamo sempre un bicchiere di vino buono e, quando si uccideva il maiale, facevamo le mandate. Non c’era, infatti, parente o vicino di casa che non ricevesse un piatto di frittole per uno slancio di bontà, di carità cristiana, di solidarietà umana, che redime tutto, a cominciare da noi stessi. La roba hjuria perchè era benedetta, diceva la nonna. »
In quel momento mi ricordai che altrettanto faceva mia madre con quel poco di carne di maiale che comprava alla macelleria. Oltre a ciò, che lei ogni mattina dava del denaro a chi bussava alla porta e chiedeva l’elemosina e ogni domenica preparava un piatto di pasta e carne in più per una donna del vicinato che era bisognosa di tutto.
Ma torniamo a ciò che diceva la zia: « Il baco veniva allevato da tutti con amore. Si racconta che le donne allevatrici mettessero il seme nel seno per farlo nascere e crescere velocemente.
Perciò si diceva: « Caddu nci voli / mu caccia lu cocciu. » E ancora, nella speranza di vestirsi con l’entrata ricavata dalla vendita dei bozzoli: « Vestindi tu / cà simu a la nuda. »
Perché l’allevamento andasse a buon fine e contro il misterioso influsso maligno, attribuito ad alcune persone capaci di esercitarlo con il solo sguardo o con una fattura, si facevano i debiti scongiuri con questa formula:

Non èni occhju,
non è bucia,
nesci malocchju
di la nurrimeda mia.

Si recitavano, poi, tre gloria, cui seguivano tre segni di croce.
A chi chiedeva, infine, il motivo della preghiera contro malocchio, fatture e  maledizioni, la risposta che si dava era sempre questa: « La nurrimi / ciangiuta voli. »
Mentre sentivamo parlare la zia di questa credenza popolare, frutto di superstizione e d’ ignoranza, ci apparve il rettilineo del Marchese, un tempo fiancheggiato da noci e da pioppi in filari regolari.
In quel luogo ogni giorno all’imbrunire sostavano i contadini che tornavano in processione dai lontani bordi di malaria.
Le acque stagnanti e la temperatura di quelle zone erano, infatti, un ambiente ottimale per  la riproduzione dell’anòfele, una zanzara infestata da un parassita, il plasmodio, che veniva trasmesso tramite le sue punture al sangue dell’uomo e causava febbre, ingrossamento della milza e una forte anemia, dovuta alla distruzione dei globuli rossi da parte dei protozoi.
Fino a qualche tempo fa si credeva che la malattia fosse causata dall’aria cattiva delle paludi. La malaria, debellata all’indomani della Seconda guerra mondiale mediante l’uso del Ddt, è, invece, una malattia di ambiente geografico. Essa ha infierito su generazioni di contadini e di pastori per migliaia di anni e le sue tracce si sono trasmesse per eredità  genetica dai genitori ai figli, tanto che i globuli rossi  di molti italiani ancora oggi ne recano il segno.
Dalla malaria venivano colpite anche le persone più vegete e robuste, che se la portavano addosso per anni perchè non se la curavano a dovere.
Dopo che si riposavano e si rinfrescavano il viso alla sorgente, denominata furmali, i contadini riprendevano il cammino verso casa con l’aspettativa gioiosa del ritorno.
I più lesti, con la zappa o la roncola in spalla, erano i foritani, cioè quelli che tornavano al paese dopo aver lavorato per tutta la settimana al servizio di un padrone, preceduti da un grappolo di figli e dalle mogli che con un viaggio di legna o di olive in bilico sulla testa sgranavano piselli, fave o legumi per non perdere tempo prezioso in cucina prima di metterli a cottura per cena nel pentolone nero di creta.
Ripercorrevano a frotte, alcuni scalzi, le scarpe a tracolla, scherzando o motteggiando su tutti e su tutto, la strada rotabile selciata a sassi, lungo un sentiero di terra battuta, tracciato da migliaia di uomini, e dalla petraia di Donnacà, dopo aver attraversato il fiume Eja, risalivano pian piano verso il Calvario, fino alla casa in paese.
Ci apparvero anche le prime colline, tutte coperte di oliveti dal caratteristico colore verde metallico. A sud-est sullo sfondo trasparente del cielo si scorgevano i monti dalle groppe morbide, addolcite dal tempo, che si accavallano e s’ inseguono, ondeggiando, verso l’impervio massiccio dell’Aspromonte.
Sulla destra non si sentiva il rumore dell’Eja, ma la valle era tutto un tripudio di aranceti che in quel periodo dell’anno non danno ancora il meglio di sè. Il loro fascino inconfondibile, una specie di calore luminoso, esplode d’inverno, quando il mondo vegetale va in letargo. E produce quei frutti succosi, carichi di aromi, che tutti conosciamo.
Serpeggiando la strada, che dalla contrada Mastrologo conduce a Maròpati, non potemmo fare a meno di osservare i piccoli e rigogliosi poderi, coltivati dai nostri contadini per evitare l’azione dilavante delle acque piovane che asportano verso il basso i terreni lavorati delle superfici in pendio.
E quando, passando vicino al nostro podere, denominato  Cesare o Carrizzi, scorgemmo in lontananza Maròpati, chiaro e allungato sulla collina che domina la valle, ci sentimmo invadere da un’immensa gioia.
Lo spettacolo meritava una sosta per godere di quel verde luminoso ma, avendo fretta di arrivare a destinazione, proseguimmo il viaggio.
Era, però, destino che dovessimo ritardare di qualche ora perchè al bivio per Tritanti si era verificato un brutto incidente e fummo obbligati a fermarci.
« Avete ancora il podere a Mario? », ci chiese la zia per distrarci.
« No. L’abbiamo venduto anni fa, quando ancora si raccoglievano le olive senza le reti ed era una faticaccia », rispose mia moglie.
« Fatigàvamu comu bestii », sottolineò la nonna, « Cogghjemu l’alivi cu’ li mani, a còcciu a còcciu, mpilettu e dinocchjuni, e d’imbernu, quandu l’acqua l’atterrava, puru cu’ l’unghj e li piruna. Mentri l’òmani nostri, la sira, li cacciàvanu a lu chjanu e li portavanu a lu troppitu. »
« Peccato perché era vicino al paese! », esclamò la zia.
« E’ vero. », confermai, « Era una passeggiata. Mi piaceva andarci ai primi tepori della primavera, quando i fiori dipingono i prati e le api ronzano loro intorno e, dopo aver affrontato la ripida  salita, distendermi in terra sopra alcune felci curvate e con le braccia conserte guardare estasiato oltre la cima di un querciolo sbilenco, arradicato su un crepaccio di faccia alla sorgiva, che ha origine tra le rocce, ricoperte di muschio.
Un muschio sempreverde, che mi ricordava quello che raccoglievo nel vallone di Cinquefrondi assieme ad altri bambini per ricoprire la montagnetta con lo zampillo d’acqua, quando costruivamo il deserto in onore di San Rocco. »
« Cos’è il deserto? », chiese con la solita curiosità Valentina.
Ricordando quanto scrisse l’amico e compaesano Francesco Gerace, le risposi così: « Il deserto è la rappresentazione di una scena della vita del Santo che viene allestita all’angolo della strada. Quasi in ogni quartiere, lungo la via di passaggio della processione, i bambini con l’aiuto dei grandi mettono in piedi questa piccola costruzione, che consiste in una sorta di capannina senza tetto, generalmente realizzata con quattro pali di legno, delle canne e molte erbe. Al centro del deserto c’è una statuina o comunque un’immagine di San Rocco, e vicino una fontanella. Il tutto, infine, viene addobbato con stelle a cinque punte e barchette, foderate di carta velina colorata.
La costruzione del deserto impegna i bambini dei quartieri per più giorni e le varie fasi dell’allestimento vengono eseguite con sistemi artigianali: le zolle erbose, chiamate in dialetto pannazzi, vengono raccolte su terreni umidi o su alberi e rocce; le stelle e le barchette si legano con un filo una per una, mettendo assieme listelli di canna affilati, su cui s’incolla la sottile carta velina.
Le scene dei deserti, la cui origine diretta non è del tutto nota, ritraggono il Santo durante la prigionia, o il suo intervento in favore degli appestati, o sono delle semplici icone.
L’acqua, che sottoforma di ruscelletto o di fontanella compare nei deserti, simboleggia, invece, la vita.
La tradizione dei deserti è una consuetudine che si rinnova tutti gli anni. Trasmessa e recepita da più generazioni, essa è divenuta regola di comportamento e di pensiero. I bambini cinquefrondesi non conoscono il significato del deserto perché nessuno glielo insegna ma, quando arriva il momento, lo fanno entusiasti e sono felici. »
Mario era un posto speciale, adatto al raccoglimento e alla riflessione sul senso della vita, del destino, della morte. Mi ritemprava il corpo e mi aiutava a crescere nel pensiero e nella ricerca interiore e spirituale.
Fu lì che un giorno, mentre il sole era vicino al tramonto, l’affettuosa ma anche furba Calliope mi ispirò un nuovo poemetto dialettale che conservo gelosamente in un cassetto con il titolo provvisorio: La risposta.
« Ho letto a suo tempo ‘Nu sonnu stranu e ricordo nettamente e precisamente la presentazione del Fiumara.
Il protagonista Peppi sogna di fare un viaggio nel paese di Cinquefrondi, in compagnia dell’Arcangelo Michele, guida celeste, nonché protettore della cittadina, calato dall’alto quasi per mostrare a Peppi la catena di vizi e di storture a cui si lega la vita di quegli abitanti.
Nel lungo itinerario si colgono situazioni e fatti paesani, da cui emergono incrostazioni di ignoranza e di ipocrisia, radicate in personaggi tipo che sotto il velo delle apparenze contrabbandano ingannevoli modi di vita e di peccato.
La Messa, il funerale, la processione, i partiti politici, il mercato, la scuola e ancora tanti altri elementi costituiscono l’affresco palpitante di vita e di colore di tutto il poemetto, in cui l’intera comunità si rispecchia nel suo modello di esistenza, quasi sempre atavica e primitiva, e nella quale assume tono di curiosità clandestina qualche elemento di novità ogni volta che vi figura di soppiatto, come quando a scuola una signorina maestra si tinge le labbra con il rossetto e gli scolari ne approfittano, facendo un baccano indiavolato.
Ricordo anche che il poemetto obbedisce a un intento morale, il cui fine è individuato nella concezione d’ un modello di esistenza ispirata a sentimenti di rettitudine e di onestà », disse la zia, intuendo con chiarezza l’argomento.
E subito dopo recitò quasi tutta la parte finale perchè, secondo lei, era la più bella e ricca di significato:

La vita

Seculi fa, ‘nu benedittu jornu,
menz’a lu celu Deu criau lu mundu.
Lu fici, non si sapi, pecchì tundu
e pemmu gira sempi ‘ntornu ‘ntornu.

Era a l’inizziu tuttu ‘nu desertu,
ma ‘nterveniu ancora lu Signuri.
Di pùrvari di terra, ma cu’ amuri,
hjuhhjandu ‘ntra lu nasu sbertu sbertu,

prasmau allora l’omu, lu campiuni,
e mu capisci l’attu e pemmu ammira,
quantu è capaci l’occhju pemmu gira,
nci dezzi puru sparti la raggiuni.

‘Nc’era, però, corcosa chi mancava
pemmu completa l’opera divina
e cu’ pacienza, cu’ la menti fini
ancora novi cosi siminava:

àrburi e hjuri di milli culuri
e di ‘nimali tutta ‘na famigghja.
Si nc’eri,  ti facivi maravigghja,
ma nudhu di nu’ atri nd’eppi onuri.

Bellu, squetatu, lìbbaru, felici,
senza nudhu vicinu a lu mumentu,
l’omu di tuttu quantu era cuntentu,
davanti a l’occhj sempi cu lu fici.

Ma di lu beni fattu si scordau
e prestu cuminciau mu teni luttu.
Lu Patraternu, chi sapia già tuttu,
‘na fìmmana bedhazza nci mandau.

Comu l’arrisi veni a li cotrari,
quandu ottennu ‘na cosa disiata,
e si ndi vannu fora e a ‘na ripata
si méntinu a guardari e a jocari,

cusì lu patri Adamu accuntentatu
si misi a fari a menz’a la vallata.
Ad Eva nci cantau ‘na sirinata
chi fici pemmu resta Deu ‘ncantatu.

Di chista diventau, poi, tantu strittu
chi si dassau tentari ‘nu matinu.
Cangiau allora Deu lu so’ distinu,
mandandulu luntanu e smalidittu.

Povaru Adamu! Abbandunatu e tristu
ciangiu pe’ tanti seculi l’errori,
finu a chi Deu, ténnaru di cori,
mandau pemmu lu sarva Gesù Cristu.

Vitti lu suli e bozzi pemmu mbivi,
nomm’èni di la siti cchjù abbrusciatu,
ma Deu non s’illudiu, era mbizzatu
mu faci beni e no’ mu lu ricivi.

Scordandu lu miraculu divinu,
si fici prusentusu e peccaturi.
A menz’a nenti si jocau l’onuri,
chi avìa pemmu lu faci ancora finu.

O patri Adamu! Li figghj pe’ rispettu
seguiru a ttia. E chi nd’avenu a diri?
Tu nci mbizzasti ch’èni lu piaciri
e doppu cchjù no’ nd’épparu riggettu.

Comu la navi, sbagliandu la rotta,
vaci a finiri a menz’a li scogghj,
pensa ca tuni lu stessu ti cogghj,
omu, ‘nu jornu pe’ mala cundotta.

Addiu bellizzi cari! Addiu fatighi!
La vita è fatta sulu di ricordi.
Chi servi, certi voti, pe’ du’ sordi
pemmu ti fai nimici e m’urdi ‘ntrighi?

Curcata longa longa ‘ntra la fossa,
dundi cu sapi quandu pô nesciri,
la carni è distinata di ‘mpurriri
e mu si fannu cìnnari li ossa.

Quant’è bellu allora, a lu puntuni,
passandu ancora dintr’a lu tambutu,
di tutti pemmu si’ ricanusciutu
pe’ ‘n’omu bravu, onestu, corazzuni!

E doppu, di li Morti o di Natali,
mu vidi ancora genti addolurata,
chi t’’una ‘na carizza e ‘n’abbasata
e faci ‘ntra la fossa mu ti sciali!…

« E nel nuovo poemetto di che parli? », mi chiese la zia senza far pausa.
« Parlo di cinque individui furbi e disonesti che si fanno vanto della loro vita peccaminosa, ricordando loro come diceva Seneca che il vero frutto delle nostre opere è nell’avere operato rettamente e nessun premio degno delle virtù può essere fuori di esse », le risposi.
« Come vorrei che mi dessi un’anticipazione! », esclamò la zia con la sua grande sete di sapere.
« Il poemetto è lungo e i carabinieri hanno quasi finito di accertare la natura dell’incidente. Poi, siamo vicino al paese, zia, e sicuramente non c’è tempo », risposi con una certa renitenza.
« Suvvia, accontentala! », disse mia moglie, esortandomi vivacemente.
« Va bene, Nella. Però, le recito solo l’introduzione  », le chiarii.

La Musa

Callìopi, chi èni assai amurusa
cu’ cui nd’àvi tendenza a poetari,
partiu di l’Elicona cu’ la scusa
di ‘na faccenda urgenti di sbrigari.

E bola, vola, vola, senza arrisi,
sup’a lu mari nostru cchjù ‘mportanti,
vinni diritta ‘nterra calabrisi,
cercandu ‘nu poeta a menz’a tanti.

Era assettatu sutt’a ‘n’alivara,
verzu li tri di doppu menzijornu,
e stancu di ‘sta vita sempi amara
guardava la campagna ‘ntornu ‘ntornu.

Chi paci si godia  e quantu hjuri!:
papavari, trifogghj, margariti
ed atri ancora, gialli di culuri,
chi nd’ànnu li pedali sapuriti.

Li arburedhi tutti ripigghjati,
l’erba spilata, ténnara, lucenti,
du’ merli cantaturi ‘ndaffarati
mu fannu la folia pe’ li ‘nocenti.

Vicinu a ‘na fossedha rivotata
‘na murra di fermiculedhi attivi,
chi avenu pemmu allunganu la strata
pe’ curpa di du’ nòzzula d’alivi.

Portavanu simenti e fogghjcedhi,
mangiari pe’ lu mbernu ch’èni duru:
lu primu esempiu di li faguledhi,
di cu lavora e pensa a lu futuru.

E doppu cchjù pe’ dhà ‘na scefratedha,
chi caminava sberta e chjanu chjanu
arretu a l’ali di ‘na farfalledha,
chi nci volava sempi cchjù luntanu.

Guardava puru verzu lu stidhatu,
chi era lisciu comu a ‘nu lenzolu,
ed era d’idhu tantu annammuratu
chi mi vidia dhà supacantu mbolu,

comu ‘na rondinedha, abituata
senza cumpagni furbi e imbidiusi,
e mi godia la curza e la sterzata,
cuntandu li secondi ad occhj chjusi.

La Musa, dall’orlo di una collinetta, situata a sinistra della sorgiva, interrompendo quel grandioso spettacolo della natura, mi apostrofò all’ improvviso con queste parole:

No’ pensi ch’èni tempu mu ripigghj
la pinna ch’era sempi manu manu
e ca non sugnu tuttu li cunsigghj
chi dasti tandu cu’ ‘Nu Sonnu stranu?

La poesia è comu ‘na perzuna,
chi àvi  pemmu cangia, mu s’affina,
non àvi pemmu staci a li puntuna,
guardandu e criticandu cu camina.

E mbiatu cu la pratica cu’ cori,
pecchì nd’àvi carcosa cchjù di l’atri:
Nci cuncediu lu celu nommu mori,
mòrinu li cazzuni e li camatri.

‘Sti urtimi palori chjari chjari
mi fìciaru mu apru e nommu chiudu:
Callìopi, pecchì no’ m’’assi stari?
Mu tornu pemmu scrivu mo lu ‘scrudu.

Eu staju ccani fin’a quandu scura,
bellu e squetatu comu a ‘n’angialedhu,
eu no’ mi chjudu a menz’a quattru mura,
pemmu diventu senza ceravedhu.

E doppu, chi mi veni a mia, lu pani?
No’ la canusci la sentenza antica?
Nci piaci sulu a dui o tri cristiani
e non a l’atri, lampu mu li mpica!

Poi, percependo che non ero più disposto a scrivere perché disingannato dalla vita, mi fece provare, con uno stratagemma, un preparato dalle proprietà organolettiche.
Esse non solo mi hanno restituito fiducia e buoni propositi, ma mi hanno, per così dire, risvegliato da un certo torpore che cominciava a impadronirsi di me, sicchè, quando all’inizio dell’estate alcuni compaesani m’ invitarono ad andare  in vacanza al mare per sentire le loro storie, non solo accettai, ma misi in atto la grande lezione del Ghibellin fuggiasco: nella vita è importante restare se stessi, gridare la propria rabbia e sciogliere la lingua all’occorrenza, lasciando grattare la rogna, senza compromessi nè rinunce:

Cercai pemmu nci fazzu capisciri
ca eu no’ mbolia mu sàcciu nenti,
ma idhi no’ lu vòzzaru sentiri,
fiducia no’ nd’avenu d’atri genti.

‘Nu sindacu, ‘nu préviti, ‘nu ‘gnuri,
‘nu medicu, ‘nu mastru e ‘na puttana,
cuntandu fattaredhi chjari e scuri,
mi tìnnaru cu’ idhi ‘na simana.

Lejitivìlla mo la loru storria
cu’ la risposta pronta mu li ‘nquatra.
E tu, Giorgettu, ‘mparala a memoria,
comu facisti tandu pe’ chidh’atra.

« Interessante e poetica questa prima parte! E sicuramente pungenti e significative sono le risposte che hai dato loro. Come vorrei sentire la risposta che hai dato al sindaco. Oppure, meglio, quella che hai dato al prete! », sottolineò, sorridendo, la zia.
« Ti leggerò tutto il poemetto a casa nei prossimi giorni. Però, visto che la cosa va per le lunghe, ascolta il finale! », le dissi, stimolato sempre dalla sua curiosità.
« L’animata conversazione viene interrotta all’improvviso da un mio vecchio maestro elementare che, soggiornando nella stessa località balneare, non aveva potuto fare a meno di sentirci:

Lu maestru

Comu chjamatu di li me’ penseri
‘nu vecchju s’affacciau di ‘n’anguledhu.
Tu si’, mi dissi, chidhu cotraredhu,
chi eu abbiai mu ‘mpara lu misteri?

Sugn’eu, maestru Longu, comu siti?
Venìstivu puru vui cc’a la marina?
Quant’anni nd’àvi? Armenu ‘na vintina
chi no’ mbi viju e  chi no’ mi viditi.

 Seguia cca intra tutti li pedati
e ti ringrazziu ca m’ammentugasti.
Facisti bonu ca nci li cantasti
a chisti peccaturi patentati.

Lu pisci, però, feti di la testa
e ormai lu nasu nostru no’ lu senti.
La lingua si lu gira ‘ntra li denti,
lu stomacu cchjù sutta faci festa.

E cu si sporza pemmu resta chjaru,
‘ntra chistu mundu di timpesta amara,
èni apprezzatu quantu la ficara,
quandu si menti ‘ntra lu focularu.

Ma chi pô fari? Nenti. E si cunsola,
pensandu ca ‘na sula zampuridha
pô essari di notti la puntidha
a cu faci fatica pemmu vola.

Li du’ proverbi chi non su’ d’ajeri
ancora oji ponnu jiri beni,
m’a menz’a tanti genti sempi nc’èni
cu sperimenta c’ a metà su’ beri:

Tuttu dipendi di la ‘docazioni
e di la cosa ch’èni distinata.
Deu si diverti a la dimenticata
mu cangia discu oppuru la stazzioni.

Non è lu vinu vecchju sempi acitu,
anzi cchjù bonu, certi voti, e caru.
Cusì pensava d’idhu lu scolaru,
prontu pemmu nci faci n’atru mbitu.

Ma idhu, previdendu la sonata,
mi dissi: Jamu, cà lu tempu vola!
Si bôi mu sai corcosa di la scola,
continuamu fora ‘sta parlata!

La spiaggia era ormai tutta diserta.
Lu suli stava jendu mu si curca.
Lu soi fudi ‘nu truccu mu mi sdurca
di chidhi galantomani a la sberta,

pemmu si godi chidhu panorama,
pemmu respira tutta l’arria fina,
pecchì, quandu la morti s’abbicina,
chidhu chi nc’èni ‘ntornu cchjù si ama.

Di picciridhi nui no’ lu facimu,
pecchì pensamu sulu a lu palluni.
Poi pari ca nd’avimu lu piruni
e mu cercamu fìmmani nescimu.

Omani prima o poi ndi maritamu
e allora ndi cumincianu li guai.
Di cosi belli no’ parlamu mai,
li cosi brutti sempi ammentugamu.

Finchè ‘nu jornu vai di l’abbocatu
chi sapi comu fa mu ti dividi.
Nci dici c’atri strati no’ ndi vidi
e nci ricordi tristi lu passatu,

quandu lu mundu caminava chjanu
e li genti li cchjù eranu boni;
facenu festa senza esitazzioni,
appena ti videnu di luntanu.

E quandu la mugghjeri era fedeli,
brava, fatigatura, conamusa,
restava ‘ntra la casa sempi chjusa
e di la vucca sua nescia lu meli.

E li figghj ti usavanu rispettu,
fujendu mu ti fannu lu cumandu,
non jenu comu oji accedhijandu
o facenu li cosi pe’ dispettu.

E doppu tuttu chidhu chi facisti
cu’ sacrifici, senza nudhu aiutu,
cumbintu ch’oramai tuttu è perdutu,
ca tuni pemmu godi no’ nescisti.

Intantu, caru meu, passanu l’anni
ed a la fini mancu ti nd’accorgi.
Quandu ti veni vogghja mu ti sporgi,
ti trovi sulu, càrricu d’affanni.

Ti pìgghja allora tanta nostargia,
nd’ài comu ‘nu quatru dhà davanti,
vorrissi pemmu balli, pemmu canti,
tutti mu si nd’accòrginu di tia.

Ma ormai no’ nc’èni nenti chi ti resta,
doppu chi tuni fatigasti nzanu.
La Morti s’abbicina chjanu chjanu
e ‘nsemi a li nimici faci festa.

Guarda lu celu, guarda chi culuri!
Lu mari ch’è ‘na tavula ncirata!
La campagna ‘ncumpruntu è ‘na cazzata.
Ccani sempi di cchjù ti nd’annamuri.

Pur’eu guardava comu a ‘nu ‘ncantatu
lu celu, chidha spiaggia e chidhu mari.
Nd’avia reggiuni, atru ca parlari!
Com’era bellu tuttu lu Criatu!

« Partiamo! I carabinieri ci fanno segno di passare », esclamò tutt’a un tratto Valentina, che non vedeva l’ora di arrivare a Maròpati.
Mio figlio Giuseppe mise in moto la macchina e partimmo, preceduti da un camion carico di legna che arrancava in salita, sprigionando un fumo denso.
« Perché scrivi sempre in dialetto? »
Alla domanda singolare della zia risposi così:
« Se è vero che poeta si nasce, ciò acquista una particolare verità per i poeti dialettali. Si nasce e si rimane poeti dialettali, per quanti sforzi si possano fare per passare a un altro genere di letteratura. Non è una questione di lingua: è la scelta di un ambiente e, proprio per questo, la scelta degli ideali, delle sofferenze, delle parole di quell’ambiente.
Più di qualunque altra la poesia dialettale è pervasa da una emotività intensa, pur velata del pudore dignitoso della gente semplice. Molto spesso è amara: la constatazione delle ingiustizie del mondo la porterebbe a essere poesia di rivolta, se insieme al senso dell’ ingiustizia la povertà non portasse con sè quello dell’inutilità dello sforzo per uscire dal chiuso cerchio del bisogno.
E’poesia profondamente umana, sempre concreta, sempre legata alla vita di tutti i giorni e pure ricca di un sentimento costante   e profondo senza essere mai sentimentale nel senso deteriore della parola. »
« Siamo arrivati a Maròpati! », esclamò Valentina, leggendo la scritta in nero del cartello stradale, innalzato all’entrata del paese: Benvenuti. Welcome. Benvenue. Willkommen a Maròpati.

Cap. 4: Maròpati: La festa patronale

Respirammo un’aria diversa, famigliare, appena scendemmo dalla macchina davanti alla nostra casa.
Sui gradini del portone ci aspettavano i suoceri e alcuni nostri parenti. Seguito da Valentina, salii subito le scale fino al terzo piano e dalla terrazza, aperta ai caldi raggi del sole, volli osservare il paesaggio:
Dapprima il bar San Giorgio, la fontana, le panchine, l’insegna luminosa, le scuole, la collina del Poro e il ponte con i colombi che si godevano il fresco sotto il cornicione, poi, a sinistra, le poche case di Tritanti, il campanile della chiesa madre, dietro le acacie e le sagome aguzze dei cipressi di don Aurelio Cavallari, e le casette del rione San Giovanni, da presepe mediterraneo, ruvide, grigie, annerite dal tempo, con le canne del camino luccicanti al sole.
Le strade verso il mezzogiorno erano completamente deserte. Come di un paese abbandonato. All’angolo posteriore del Municipio, sotto le fronde ombrose del giovane e sofferente abete, riposavano tre cani randagi. Piccoli, neri, denutriti e stanchi. Dalla curva veniva strepitante verso di noi una vecchia Fiat 127 carica di bagagli.
Scomparve la stanchezza del viaggio e un grande senso di serenità e di pace pervase il nostro animo.
« Com’è bello! », esclamò Valentina, « A quest’ora per le strade di Genova c’è un traffico assordante e un brulichio di persone che sono in giro per compere o per altre faccende. »
« Dovresti vedere il paese di notte, quando il silenzio e la tranquillità diventano assoluti », osservai con soddisfazione.
E, ricordandomi di Rosario Belcaro, un  poeta maropatese dalla precoce vocazione letteraria, le recitai questa triste e sconsolante poesia:

In questo villaggio deserto

A Maròpati le notti
sono più chiare dei giorni,
anche se spesso la luna s’asconde
dietro diafane foglie d’aranci
per tema di un bifolco risentito
che spara persino alla luna.

Di giorno il sole picchietta
sulle facce di rame
dei contadini curvi sulle vanghe
a dissodare un terreno non loro
che produrrà gramigna ogni stagione.

Il vento scompiglia le trecce
delle donne intirizzite e chine
a raccogliere le olive del padrone
che le ripagherà con quanto basta
per condire cicorie.

I fanciulli sono veri scoiattoli
per rubacchiare la frutta primizia,
nel rincorrere mosche a bocca aperta
e ramarri tra le siepi
pensili sui dirupi.

E in questo villaggio deserto
vivo anch’io come loro
i miei giorni dolenti.

Rientrammo in casa e, in attesa di pranzare, ci sedemmo sul divano, davanti alla tivù.
Trascorremmo il pomeriggio, conversando sulla terrazza, e  la sera ci coricammo presto, affaticati dal lungo viaggio attraverso l’Italia.
Dedicammo tutta la settimana al mare. Andando e venendo ogni mattina da Nicòtera Marina. Per Valentina furono giorni meravigliosi di sole, di bagni e di giochi sulla sabbia.
Sabato sera, sul palco di legno, allestito in Piazza Castello, si esibirono i canterini di Nicastro che cantarono e ballarono con la dovuta destrezza decine e decine di tarantelle davanti a un folto pubblico di tutte l’età.
Contagiata da quella musica ritmica e ossessiva, accompagnata dal battere delle mani, la gente attorno al palco si dispose in cerchio e ballò in coppia, imitando gli instancabili canterini che componevano figure, imbastite sullo schema di un movimento a girotondo che ripete i supposti movimenti della tarantola.
Valentina, facendosi largo tra la folla, si piazzò in prima fila, dove c’erano altre bambine, e davanti a me che l’avevo seguito senza lasciarla un momento.
La festa si concluse a mezzanotte. Arrivò la domenica, la prima domenica di agosto. All’alba la strada si animò delle voci concitate e dei movimenti frenetici dei venditori che toglievano dai loro mezzi le mercanzie per allinearle e sistemarle sui banchi o sui teli distesi per terra.
Alle sette il sole picchiava già forte e invitava  la gente, alzatasi di buon mattino, a cercare riparo dalla luce del sole. Le rondinelle saggiavano il primo volo della giornata, planando a mezz’aria con ampi e lenti giri. Un rondone volava in solitudine nello specchio di cielo sopra Riace.
Lo scoppio di alcuni razzi volanti e il suono allegro della campana annunciarono l’inizio dei festeggiamenti.
Poco dopo si presentò la banda musicale di Giffone, guidata dal maestro Antonino Giacobbe. Lo si capì, anche senza vederla, da dentro casa perché nell’aria si sentivano strombettare gli strumenti: ciascun sonatore, per conto suo, faceva delle prove prima del giro. Un clarinista giovanetto si esercitava, addirittura, con Tu scendi dalle stelle.
Dal paese, intanto, scendevano i tamburini, dietro i giganti Mata e Grifone, accompagnati da un asinello di cartapesta, penetrato da un uomo smilzo, che portava in testa un cappellino da cui pendevano ciondoli e nastrini colorati.
Valentina si svegliò e, dopo averli seguito dalla terrazza, espresse il desiderio di vederli da vicino. Uscita in strada, si mise  a ballare anche lei in mezzo a una cerchia di bambini, pieni di festosa letizia, avendo superato la paura di essere sfiorati e afferrati da loro.
Ve lo immaginate cosa avrebbe fatto, se l’avessi portato alla festa di San Rocco, a Gioiosa Ionica, l’ultima domenica di agosto?
Una caratteristica di questa festa, infatti, è il ballo votivo di San Rocco. Durante la solenne processione, al canto di Roccu, Roccu, Roccu / Evviva santu Roccu!, che imita il suono del tamburo, paesani e forestieri ballano per diverse ore nel caldo afoso fino al rientro della statua in chiesa. Il ballo è eseguito con movimenti rotatori del corpo, che sfibrano la resistenza dei ballerini, impegnati a manifestare la loro devozione al Santo.
Dapprima ballano per sciogliere un voto o per penitenza pochi devoti, poi, man mano che il ritmo si fa più frenetico, vi partecipano molti altri, riempiendo ogni spazio possibile della strada, mentre la folla, affluita da ogni dove, guarda con occhi attenti e curiosi.
Alle dieci mia moglie, la zia, Valentina e io ci recammo in chiesa per ascoltare la santa Messa. La chiesa, addobbata con fiori e inondata di luce, filtrante anche dalle vetrate istoriate, era gremita di gente. I bambini e le donne erano seduti nei banchi anteriori, gli uomini in fondo, per lo più in piedi e ammucchiati davanti all’entrata. I cantori locali, accompagnati con la chitarra, eseguivano i canti nel coro, suscitando una soave emozione. Alcuni giovani chiacchieravano e ridevano smoderatamente all’esterno della chiesa, mentre un insigne oratore ecclesiastico teneva il panegirico sulla vita e il martirio di San Giorgio.
Conclusa la Messa, uscendo dal portone e dalla porticina laterale, i fedeli apparvero tutti vestiti a festa. Le donne sfoggiavano un trucco leggero; quelle più ricche anche collane e orecchini che emanavano uno splendore vivo e ammaliante. Nell’aria si sentivano profumi deliziosi.
Alcuni uomini seguivano l’esibizione della banda musicale, altri occhieggiavano le ragazze che passavano ancheggiando o erano ferme davanti alla chiesa a scambiarsi notizie o pettegolezzi con le amiche. Le madri di famiglia si avviavano con passo spedito verso casa per preparare il pasto di mezzogiorno.
Mia moglie, la zia, Valentina e io, serpeggiando nel sole e nell’ombra, in mezzo a un mosaico di facce e di voci, demmo un’occhiata alla fiera.
Dalla chiesa alle Baracche era una brulicare di bancarelle ricche di oggetti, di forme, di fantasia e di colori.
Alcuni venditori esponevano ai passanti giocattoli e utensili per la casa e la campagna, altri bigiotteria e cassette di musica folk che, riprodotta e amplificata dagli altoparlanti, saliva acuta e stridente nell’aria.
Un bambino sprizzava gioia nel volto perché il papà gli aveva comprato un palloncino rosso con le caratteristiche di un orsacchiotto assicurato a un filo.
Appoggiati a un bancone di una baracca, costruita nei pressi della pescheria, due giovani giocavano a tiro a segno con l’aspettativa, se avessero colpito il bersaglio, di vincere un premio.
Valentina si fermò davanti a una bancarella di mostaccioli e ne desiderò uno raffigurante un cavalluccio.
I mostaccioli sono i famosi dolci della Calabria fatti con farina, miele ed essenze; cotti al forno, lavorati pezzo dopo pezzo, decorati con carta colorata o stagnola, raffigurano foglie, lettere dell’alfabeto, pesci, pecorine accosciate sui prati, colombe innocenti, galletti spiritosi, cavalli sfrenati con sulla groppa un ardito cavaliere, vergini trasognate con la palma del martirio, oppure enormi cuori recanti varie scritte per traverso, o che ripetono la lettera iniziale del paese di origine e di quello di maggiore smercio, una esse, che sta per Soriano o Seminara, grandissima e aggraziata.
Pochi sanno che un tempo, quando la Calabria era Magna Grecia e al posto dei santi famigliari di oggi c’erano gli dei pagani, questi dolcetti venivano offerti alla divinità come ex voto, per grazia ottenuta o richiesta, e avevano le stessissime forme svariate e curiose di oggi.
Ce ne parla Teocrito, il maggiore poeta greco dell’età alessandrina, vissuto tre secoli prima di Cristo, che li descrive con grande precisione.
Scendendo dal paese, nella casa disabitata del vecchio segretario comunale Cristoforo Laganà, ora di proprietà Seminara, visitammo la mostra di due artisti maropatesi, Michele Villone e Giuseppe Còrica.
Le sculture in pietra e in legno di Giuseppe Còrica erano di ottima fattura, ma Valentina si mise a osservare, soprattutto, i quadri di Michele Villone. Rioni, strade, monumenti, vecchi mulini di Maròpati e dintorni, dai colori intensi, semplici, naturali, pittoreschi.
Ciò che non sapeva Valentina che a dipingerli era stato un uomo timido, schietto, non più giovane, con soli quattro dita della mano destra, avendo perduto la sinistra da bambino per lo scoppio di un ordigno di guerra inesploso, portando nel cuore la magia della propria terra e confidando nell’eterno valore della pittura.
Di pomeriggio, dopo le ore più calde della giornata, accompagnati da alcuni parenti, ci presentammo in chiesa per seguire la processione di San Giorgio e riscoprire con i Maropatesi i sentimenti, le tradizioni e le radici mai scalfiti dal trascorrere del tempo.
Lo spazio di fronte all’ingresso principale a poco a poco si gremì di devoti, compreso quelli che non frequentano la chiesa e  vivono senza tener conto di Dio.
Alle diciotto e trenta in punto si sentì uno scampanio, seguito dallo scoppio di alcuni razzi volanti, e subito dopo apparve don Eugenio, preceduto da tre chierichetti e da due uomini con lo stendardo e il vassoio per le offerte.
Spuntò dopo di lui San Giorgio, portato a spalla da uno stuolo di gagliardi giovani in maniche di camicia.
Il Santo fu subito deposto a terra e messo all’incanto. Bisognava stabilire attraverso una scommessa, se toccava ai celibi o agli ammogliati l’onore di trasportare la statua per le vie principali del paese.
Uomini e donne assistevano accalcati nella piazzetta, sotto e  sopra  i balconi delle case. Le vecchiette, le mani intrecciate al rosario, pregavano e si raccomandavano a San Giorgio. Alcuni bambini si godevano lo spettacolo tenuti per mano o in collo dai genitori.
Vinsero i giovanotti ancora celebi che al grido di Viva li schjetti! e Viva San Giorgi! si caricarono di nuovo sulle spalle la statua del Santo e diedero inizio alla processione.
Immediatamente attaccarono a suonare anche i bandisti che riempirono l’aria delle note di una marcetta strepitosa, alternandosi con i tamburini che, picchiando violentemente e fragorosamente i loro strumenti, ravvivavano il passo dei fedeli.
La processione sfilò dietro il Santo tra musica, preghiere e mormorii. Coloro che partecipavano alla festa non erano semplici spettatori. Ognuno portava con sè un desiderio, un dolore, una gioia. Quella statua rappresentava la loro storia, segnava il tempo delle generazioni, dava un senso di continuità alla vita.
Attraversati Corso Umberto I e Piazza Castello, arrivammo alle ultime case di Via Risorgimento, poco oltre il  Calvario.
Lo stendardo con l’effigie del Santo traboccava di oggetti d’oro e d’argento, di fotografie e di vestitini, donati da alcuni fedeli per una grazia ricevuta o per essere preservati da infermità negli anni a venire.
Durante la sosta gli abitanti del Rione offrirono ai giovani portatori, affannati sotto le lunghe aste della pesante bara, un  bicchiere di vino prodotto da loro stessi per contrastare la calura estiva.
Di ritorno scendemmo alle Baracche, il quartiere costruito in seguito ai terremoti del 1905 e 1908. Venendo dalle Case popolari, ci fu l’ultima sosta, la più lunga, in Piazza della Vittoria.
Non appena il Santo fu deposto a terra, i più accaldati e stanchi presero d’assalto chi il bar San Giorgio. Chi la fontana. Chi le panchine. Chi i muretti delle aiuole. Chi gli scalini del Municipio.
Tutt’ intorno c’era molta animazione. Alcuni neonati dormivano nelle carrozzelle, sorvegliati amorosamente dalle loro mamme. I vigili in grande uniforme controllavano il traffico sulla strada principale. Gli emigranti si avvicendavano a scattare fotografie e a posare davanti alla statua. Il volto del Santo lampeggiava in un sobrio tripudio di foto-ricordo.
Poi, all’improvviso, si udì l’esplosione di una batteria di petardi, disposti dal fochista lungo la ringhiera che circonda l’atrio della scuola elementare.
Gli occhi di tutti scattarono al cielo. Alcune persone  voltarono istintivamente il viso in altra direzione, altre indietreggiarono verso il muro del Municipio, turandosi gli orecchi.
Subito dopo, mentre nell’aria si avvertiva l’odore della polvere pirica, ci fu il proseguimento della processione e l’arrivo davanti al piccolo sagrato della chiesa, momento culminante di un cammino di fede, di speranza e di devozione.
Rimessa con prudenza la statua ai piedi dell’altare, la chiesa scoppiò in un applauso fragoroso. La campana suonò fugacemente. I presenti sfilarono davanti al Santo per l’ultimo saluto. A Montagna e a comare Concetta, in un momento di grande commozione, vennero i lucciconi agli occhi. Nella luce del crepuscolo un velo di mestizia avvolse il volto dei fedeli, che dirigevano i propri passi verso casa fiduciosi dell’attenzione del loro Santo nella vita di ogni giorno.
Maròpati ha sempre avuto una grande riverenza per il suo protettore. Il suo popolo, che  lo ha sempre onorato, non finirà mai di onorarlo con orgogliosa passione.
Noi tornammo a casa e, dopo una rapida cena, salimmo di nuovo in paese. Nella Piazza attorno al palco c’erano già dei bambini e delle persone, alcune del luogo, altre venute da fuori, per assistere al concerto degli Stadio.
Dal Corso, illuminato con sfarzo, e dai Rioni in penombra giungevano intere famiglie e gruppi di giovani allegri e spiritosi.
Alle ventidue una folla attenta e rumorosa era pronta a seguire l’orchestra e i noti cantanti che si esibivano tra giochi di luce, di colori e di animazione.
Poco dopo la mezzanotte, spenta la musica, lasciammo la Piazza e andammo a vedere gli attesissimi fuochi d’artificio: una cascata di particelle multicolori, prodotte da alberi e arabeschi scoppiettanti, che noi seguimmo in silenzio e con il naso all’insù dalla terrazza, gli altri dai balconi e dalle finestre delle case, dal ponte e dal viale sottostante.
Dalla vicina collina del Poro, un po’al di sopra del traliccio dell’Enel, guardava lo spettacolo anche la luna che, grande e luminosa, vinceva le stelle che brillavano rare nello scuro sfondo del cielo.
Infine, confusi e al tempo stesso affascinati dalla scarica finale e dagli ultimi razzi tonanti e bui, sotto una meravigliosa luminaria, incastonata dagli archi di trionfo, tutti sciamarono frettolosamente verso casa, bisognosi di riposare dalla stanchezza, per essere pronti il giorno dopo, con le forze pienamente recuperate, a riprendere le attività di sempre nella suggestiva cornice della Piana.
Piacevomente sfiniti per il lungo itinerario della processione e per la serata, trascorsa continuamente in piedi, all’una in punto ci demmo la buonanotte e andammo a dormire anche noi.
La domenica successiva la zia e Valentina avrebbero assistito, se fossero rimaste a Maròpati fino a sera inoltrata, a un’altra breve processione di San Giorgio lungo il piccolo centro
storico, rallegrata come sempre dai tamburini, dall’esplosione di mortaretti e da lunghi e intensi battimani, prima di riportare la statua in chiesa e inserirla nella sua grande nicchia a lato dell’altar maggiore per essere ospite graditissima e veneratissima ancora.

Cap. 5: Zio nino (Da pubblicare)

 

Cap. 6: Le credenze popolari

Dopo cena la zia, Valentina e io decidemmo di andare dalla nonna che abitava in paese.
Era una bellissima sera d’estate con chiaro di luna. Per le strade passeggiavano uomini e donne di mezza età con la maglietta posta al di sopra delle spalle. Le panchine della Gabina erano affollate di gente, la maggior parte in piedi o seduta per terra.
Alcuni giovani conversavano, altri schiamazzavano, come se fossero ubriachi. Alcune coppiette, appartate dietro gli alberi e poco esposte alla luce dei lampioni, fiochi e distanziati, si abbracciavano e si scambiavano furtivamente qualche carezza.
Ci sedemmo davanti alla casa della nonna, occupando con tutte le comari del vicinato quasi tutta la stradina.
Oltre a comare Peppina, piccola di statura, esperta tessitrice, c’erano comare Virginia, con i capelli bianchi, nonostante la  giovane età, comare Annunziata, corpulenta, cugina della nonna, comare Amelia, dal portamento signorile, dotata di istruzione magistrale, e comare Genoveffa, la matrona del gruppo, che prese posto al mio fianco. Vicino a Valentina, sedute a gambe incrociate e pronte ad ascoltare, c’erano, infine, quattro cinque bambine di età varia.
E’ usanza in Calabria riunirsi d’estate dopo cena per parlare dei fatti del giorno o recitare filastrocche o raccontare delle storie misteriose, mentre i bambini, accovacciati per terra, con la bocca aperta e gli occhioni sgranati, ascoltano la raccontafavole di turno che porta negli occhi una storia millenaria.
Nonna Teresa invitò comare Genoveffa a raccontare qualcosa a Valentina.
« Chi boliti mu nci cuntu, la storia di lu fadettu oppuru chida di lu lupu mannaru? », disse la comare, senza perdere tempo.
Precedendo la nonna nella risposta, dissi così:
« Non cambiate mai, comare Genoveffa! Queste storie paradossali o inverosimilmente assurde si raccontavano una volta per spaventare i bambini, renderli più buoni e indurli a un comportamento meno spericolato e dispettoso. I bambini di oggi sono diversi, amano storie più spiritose e divertenti o che ispirano sentimenti dolci e malinconici. »
Per chi non lo sapesse, una volta in Calabria il folletto era presente in ogni casa. Vagava per l’aria, agitandosi, saltellando, ridendo sgangheratamente; non c’era chi non credesse nelle sue generosità o nei suoi dispetti. Buono o cattivo, provvidenziale o vendicativo, faceva traboccare la pasta del pane o stappava le damigiane del vino. Guai, però, a dubitare del suo straordinario potere o a scorrucciarlo perché lui, per dispetto, annullava ogni prodigio.
Mi ricordai che anche mia madre nelle lunghe e fredde sere d’inverno, mentre eravamo riuniti intorno al braciere, raccontava a me e a mio fratello una delle tante storie del folletto, tramandate per secoli. Narrava di una famiglia di artigiani che, non potendo più sopportare le sue sevizie, decisero di andare ad abitare altrove.
Il giorno del trasloco padre, madre e figli, lieti di andare incontro a giorni migliori, avevano imbavagliato gli attrezzi domestici per metterli su un carretto.
Tutto era pronto, fuorché la pala del pane e la scopa che, caso strano, non erano state trovate al loro posto.
Fruga di qua, cerca di là, non si veniva a capo di nulla, quand’ecco dalla sommità della scala si sentì un rumore e poi una voce roca, simile a quella di un vecchio, che diceva:

Port’eu, port’eu la pala?
Port’eu, port’eu la scupa? Ndi ndi ndi
ndi ndi jamu a la casa nova!

Quei poveretti, sorpresi, guardarono verso l’uscio e videro, indovinate chi?, il folletto che, ridendo e sghignazzando, si preparava anche lui incappucciato a salire sul carretto.
Mia madre ci credeva come ci credevano tutti e anch’io, dopo averla sentita tante volte, finii per credere che quella storia fosse vera.
Il lupo mannaro, invece, era un uomo che nelle notti di luna piena si trasformava, spesso contro la sua volontà, in un lupo mostruoso e feroce. Leggende legate a questo personaggio sono diffuse dappertutto. La nostra tradizione popolare ce lo presenta così:

Jeu sugnu lu lupu mannaru.
Lu jornu mi riposu ‘ntra li spini,
nesciu di notti, quandu nc’è la luna,
e aundi trovu pecuri e gadini
viva no’ ndi dassu mancu una.

Comare Virginia prese la palla al balzo e recitò:

  Cicerineda nd’avia ‘na mula,
jia a Napuli sula sula,
senza varda e senza seda:
era la mula di Cicerineda.

« E’ la famosa storia di Cicerinella », dissi sottovoce  a Valentina che aveva ascoltato me e la comare silenziosa e attenta.
Lei fece cenno di aver capito e, rivivendo la sua infanzia, disse a sua volta:
« Anch’io conosco la filastrocca di Cicerinella; me la recitavasempre mia mamma, dondolandomi sulle ginocchia, ma è più lunga di questa. La volete sentire? »
«  Si, Valentina », risposero tutte in coro. E lei incominciò a recitarla con quell’espressione e quella voce di cui sono dotate le bambine di città:

Cicerinella aveva un podere
tutti i giorni l’andava a vedere
e ci aveva la briglia e la sella
era il podere di Cicerinella

Cicerinella aveva una mula
tutti i giorni la dava a vettura
e ci aveva la briglia e la sella
era la mula di Cicerinella

Cicerinella aveva un gallo
lo portava alla festa da ballo
e ci aveva la briglia e la sella
era il gallo di Cicerinella

Cicerinella aveva un cane
gli faceva mangiare il pane
e ci aveva la briglia e la sella
era il canino di Cicerinella

Cicerinella aveva un topo
gli faceva soffiare il foco
e ci aveva la briglia e la sella
era il topino di Cicerinella

Cicerinella aveva un gatto
gli faceva leccare nel piatto
e ci aveva la briglia e la sella
era il gattino di Cicerinella.

« Brava, Valentina! », esclamarono le bambine, esprimendo  tutta la loro gioia con il battere delle mani. La sua recitazione incantò anche le comari, che si complimentarono subito con lei e con la zia. Poi intervenni io:
« Ognuno di noi, se cerca nella propria memoria, in quell’angolino che conserva gelosamente tutti i momenti della fanciullezza spensierata, trova sicuramente delle filastrocche. Tutti i bambini le hanno usate per giocare o per trasmettere ai coetanei insegnamenti ricevuti dai genitori o dai nonni.
Ma chi di voi sa cos’è una filastrocca? E’ facile recitarla, è piacevole ascoltarla, ma non sempre è ugualmente facile  individuare gli elementi ritmici, lo schema, la struttura e tutti gli accorgimenti che conferiscono alla filastrocca musicalità, scioltezza e funzionalità.
Una cosa che salta subito alle orecchie  è la rima. Essa consiste nel far terminare le parole finali del rigo con la stessa tonalità, tanto che nel linguaggio popolare si dice che una cosa “rima” quando combacia bene, quando il risultato di un’azione, di un gesto risponde alle nostre aspettative. Nella filastrocca, spesso, non sempre, la rima di un verso coincide con quella del verso successivo e si dice “rima baciata” perchè i versi somigliano a due bocche che si accostano, si baciano. Le filastrocche, accompagnando per lo più i giochi dei bambini, devono essere facili da imparare e da ripetere, magari durante il gioco, per questo contengono molti ritornelli, dopo strofe o brani più lunghi.
I temi che le ispirano sono tanti e diversi, come la pioggia, il sole, la luna,  i numeri, le feste, la guerra, gli animali e coinvolgono due o più bambini nello stesso gioco.
Il ritmo complessivo che ne risulta è ripetitivo e martellante, simile a quello di una marcetta. E proprio con una marcetta, chetermina con un colpo di grancassa, anche le filastrocche, qualunque sia il tipo di verso e di rima impiegato, si concludono spesso con due rime tronche, cioè accorciate nella sillaba finale:

Cavallino, trotta, trotta,
che ti salto sulla groppa,
trotta, trotta in Delfinato
a comprar il pan pepato;
trotta, trotta, in Gran Bretagna
a comprar il pan di Spagna.
Trotta, trotta e torna qui,
che c’è il pan di tutti i dì.

Una filastrocca,  molto vivace ed eloquente, scritta da un poeta contemporaneo, è questa:

Ecco il tempo che cambia stagione
si gira il foglio si vede il burrone

ecco il burrone che squarcia la terra
si gira il foglio si vede la guerra

ecco la guerra che non è mai finita
si gira il foglio si vede la vita

ecco la vita che costa lavoro
si gira il foglio si vede l’oro

ecco l’oro che luccica e brilla
si gira il foglio si vede il lilla

ecco il lilla che gioca al colore
si gira il foglio si vede l’amore

ecco l’amore che canta il poeta
si gira il foglio si vede l’atleta

ecco l’atleta che vinca il più forte
si gira il foglio si vede la morte

ecco la morte che porta via la gente
si gira il foglio si vede più niente

ecco il più niente che fa dispiacere
si gira il foglio si torna a vedere.

Comare Amelia, non volendo fare una brutta figura al mio cospetto, prese la parola e con voce pacata disse:
« Io, se avete pazienza, vi leggerò, invece, una storia scritta da Rosina Vocaturo, una maestra di Aiello Calabro. »
E nella stradina, rischiarata dalla luce del lampione, lesse questa storia commovente, uscita dal cuore dell’autrice:
« La protagonista è una bambina rimasta orfana di madre e di padre. Povera orfanella! Era bionda come una spiga matura, delicata come un fiore gentile; aveva il visino bianco, spumato lievemente di roseo, gli occhi azzurri come il cielo, appassionati in una serena melanconia che, talvolta, s’ illuminava di un sorriso angelico.
Si chiamava Stellina ed era bella veramente come una stella di luce tremula e scintillante, che appare in cielo nebbioso, com’ella apparve in questo mondo fra i dolori della vita.
La cara fanciulla, di un’anima sensibilissima, amava le cose belle:  i fiori e gli uccelli, il sole e la luna, il cielo e il mare; le cose che danno affetti soavi, pace all’anima, tranquillità allo spirito.
Tutti la miravano, e più volte sentii dire: è un angiolo che ha smarrito la via del cielo! Non la vedevo da molto tempo; perché era d’inverno, e la sua personcina delicata non reggeva ai rigori della fredda stagione. Le nebbie scure, la pioggia, la grandine, i fulmini le recavano tristezza, e le facevano paura; perciò ella se ne stava raccolta e rinchiusa nel suo palazzo; e solo quando un pallido raggio di sole invernale penetrava nella sua cameretta, lasciava vedere per un momento attraverso le vetriate la sua cara e bionda testina.
Ma l’inverno nemico delle anime gentili, degli esseri delicati era passato, ed era venuta la primavera: era tornato il cielo azzurro e sereno, il mattino splendido, la sera mite e tranquilla, era tornato il venticello imbalsamato della fragranza dei fiori, era tornata la viola mammola, era tornata anche la bella Stellina.
Ella viveva in città, e abitava in un ricco e sontuoso palazzo, ma non era contenta. Non andava a feste da ballo, a teatro, a passeggio in carrozza; il suo cuore che racchiudeva tesori di affetti miti, soavi, santi, non capiva la vanità e il chiasso delle gioie mondane.
Ella amava le sublimi bellezze della natura: desiderava vivere in una campagna verdeggiante, allietata dal canto degli uccelli.
Col venir della primavera voleva recarsi in villeggiatura e vivere una vita serenamente beata, lontana dalle finzioni e dagli orgogli del mondo. Avrebbe desiderato abbandonare il suo palazzo, perché era in mezzo alla città, ed ella non voleva che la sua casa fosse senza il verde del prato, senza il dolce mormorio del ruscello, senza l’aria libera e odorata dei campi in fiore.
E abbandonò il suo magnifico palazzo della città; ed insieme con una buona vecchietta, che aveva avuta per guida da quando era rimasta orfanella, e sapeva comprendere le delicatezze, le aspirazioni, le idealità del suo cuore, andò ad abitare una vezzosa casina in campagna, che il suo povero babbo aveva fatto costruire apposta per lei.
La casina era posta su di una verde collina, fiancheggiata da un boschetto, in mezzo al quale un ruscello scorrendo confondevail suo dolce mormorio con lo stormire delle piante, scompigliate dagli zefiri e nell’ombra i rosignuoli gorgheggiavano soavi melodie.
Dal lato opposto al boschetto la collina dolcemente digradando si distendeva nella pianura, formando un giardino delizioso; con vaghezza di aiuole ricolme di fiori smaglianti, con rigoglio di piante, che offrivano allo sguardo tutte le sfumature del verde e che con-tornavano i piccoli viali bianchi, allineati.
In mezzo al giardino riscintillava ai raggi del sole un laghetto artificiale, dalle acque cristalline, in cui guizzavano pesciolini dalle squame d’argento e d’oro.
Fra tante bellezze sorgeva la casina della fanciulla, con davanti un pergolato di gelsomini; ed aveva una finestra a levante ed un’altra a ponente dalle quali Stellina poteva godere il sorgere ed il tramonto del sole.
Ella era sulla prima finestra al mattino, ad aspettare che il sole, levandosi da dietro i monti lontani, risvegliasse tutte le cose d’intorno; ad aspettare che un raggio di luce venisse a rendere splendida la sua cameretta.
Era sull’altra finestra alla sera, a guardare estatica il tramonto del sole, laggiù verso il mare turchino, fra le nubi d’oro.
Le stanze della casina erano piccole, civettuole, tappezzate con eleganza. In una di esse, soave nido di colomba, era il letto di Stellina: al capezzale pendevano un crocifisso d’avorio ed una Madonnina dipinta, presso la quale ogni dì la fanciulla poneva un mazzolino di rose.
Spesso s’inginocchiava davanti a quell’immagine santa, e pregava in compagnia della buona vecchietta.
In un angolo della camera era un tavolo con pochi libri rilegati finemente, in velluto e oro: libri di poesia e di preghiera, scritti da poeti solitari, da mistici, da santi.
Così Stellina viveva in quel nido profumato, nella libera campagna, sulla verde collina, fra un bosco ed una serra, nella solitudine, lungi dai tumulti della città. Il sole era tramontato da poco, e nel cielo limpido di zaffiro occhieggiava la prima stella curiosa, quando la bionda  fanciulla fulgida e lieve nell’abito roseo, scendeva nel suo giardinetto, in mezzo ai fiori.
Guardava le stelle nell’azzurro cupo del cielo, mentre un raggio di luna le ricingeva di un’aureola bianca la vaga testina; e rimaneva in estasi a contemplare quei punti luminosi, e rivolgeva loro i suoi pensieri e i suoi sospiri:
« O stelle, quanto mi rallegrate! Voi siete meravigliose, voi siete tanti; lumi rivolti alla terra, ed abbellite questo misterioso silenzio della notte. O stelle, vorrei vedervi da vicino, vorrei sapere quanto siete grandi! Se avessi le ali, volerei a voi; verrei a stare con voi, se potessi. O stelle, io vi guardo, io vi adoro. E tu, o luna, bella luna, candida luna, quanto sei cara!
Ad un tratto, commossa, Stellina abbassava la testa, ed un’aura soave le portava gli effluvi, i baci dei fiori, le scarmigliava i capelli biondi, le gonfiava un lembo del bellissimo vestito di rosa.
La vecchietta l’era accanto, e pregava Iddio e la Madonna per lei, mentre che una lacrima tremolante le solcava le rughe delle guance. Ella temeva molto per la sua Stellina; le pareva che una voce le ripetesse:
« Non può stare più con te; la terra non è fatta per lei. »
Quando era notte avanzata, la campagna deserta e muta, ed altro non s’udiva che il mormorio dei ruscelli ed il cri-cri dei grilli, la fanciulla rientrava nella sua cameretta: ivi vegliava ancora, in compagnia della zia affettuosa.
Stellina si sedeva a pie’ del seggiolone, in cui la buona vecchietta stava adagiata, e reclinando la bionda testina sul seno di lei, ascoltava le fiabe ch’ella le narrava.
Spesso la vecchia parlava alla fanciulla della mamma e del babbo. Allora Stellina alzava la testa sospirando, e con la vocesoffocata dai singhiozzi domandava:
« Dove sono la mamma e il babbo mio; perché non vengono qui a stare con noi due, nella dolce solitudine della nostra campagna? »
La vecchia, tremando di commozione, posava le labbra asciutte sui morbidi riccioli della fanciulla e mormorava:
« La mamma ed il babbo sono lassù in cielo, ov’è più bello della campagna silenziosa, accanto alla Vergine che tu preghi, ed in mezzo agli angioli biondi come te, fanciulla mia; là essi pregano per te, pregano che sia loro concesso di vedere anche te fra gli angioli. »
Stellina era contenta, e pregava anch’essa la Madonna di unirla   presto alla mamma ed al babbo suo.
La primavera era inoltrata e si sentiva nell’aria tiepida, nel profumo dei fiori; rideva nel verde dei campi e nell’azzurro del cielo.
La fanciulla, nel suo giardinetto, in mezzo alle viole accarezzava una bianca camelia, ma non sembrava più lei.
Era pallida pallida, ma non era triste: anzi aveva un sorriso per tutte le cose, che più del solito si compiaceva di guardare; sembrava che dovesse lasciarle, che fosse l’ultima volta a rivederle. Aveva abbandonato la città, ed ora stava per dare un addio alla campagna: aspirava al cielo, al soggiorno degli angioli e delle anime elette.
Era venuta l’estate. In una sera di giugno, nell’ora del tramonto, un tramonto splendido e rosso come un incendio, una bara coperta da un velo bianco, con una ghirlanda di fiori vivi, era portata al camposanto del vicino villaggio. L’angiolo aveva fatto ritorno ai cieli nativi.
La bara era seguita dalla buona vecchietta che piangeva e da molti contadini e contadine dal viso atteggiato a un dolore sentito…Seppi che Stellina non era più…Sentii una stretta al cuore e piansi… Ecco: la cara visione è sparita con i fiori e le bellezze della primavera. Ritornerà la primavera, sbocceranno i fiori, ma ella non tornerà mai più… E’ sparita come un soffio di vento, come il profumo dei fiori, come una bianca nuvoletta al primo raggio di sole, e non tornerà mai più!…
Questo mondo non era fatto per lei; ha detto addio alla città e alla campagna; ora è fra gli angioli del cielo, accanto alla mamma e al babbo suo. »
Quando ebbe finito la storia di Stellina, comare Amelia era felice perché aveva dato una grande prova della sua capacità di leggere e di emozionare. E felici erano anche le altre comari e le bambine che, per la prima volta, grazie a Valentina, avevano ascoltato una bella storia in italiano.
Poco dopo arrivarono i cugini più grandi e invitarono Valentina  a fare una passeggiata. Valentina chiese il permesso alla nonna che raccomandò:
« Andate pure, ma non fate tardi! »
Si recarono prima alle panchine, poi al ponte e là, sotto la luce dei lampioni, assistendo alle discussioni, ai pettegolezzi e alle civetterie dei ragazzi, Valentina si dimenticò di Stellina e delle altre storie che aveva ascoltato.

Cap. 7: Il rione Chiarilla (Da pubblicare)

 

Cap. 8: La Calabria ionica

La sera, prima di lasciarci, concordammo con la zia di andare successivamente nella Locride. Mercoledì mattina, alle otto e trenta, eravamo già a Cinquefrondi. Ci fornì l’indicazione precisa dell’ora l’antico orologio della Torre che si erge maestosa nella Piazza,  accanto alla chiesa madre.
Nell’attraversare il Corso, poco prima di prendere la superstrada che congiunge la costa tirrenica con quella ionica, Valentina notò:
« Che paese carino! »
« Cinquefrondi è il paese più carino della Piana. Io sono di qui; ci ho passato l’infanzia e la giovinezza », affermai orgoglioso. E subito dopo recitai questo sonetto:

Cincrundi

Di paisi ndi vitti a morimamma,
puru luntanu di ‘sta terra ‘ngrata,
ma nc’èni unu chi doppu la mamma
eu tegnu ‘ntra lu cori a ‘na ripata.

Cincrundi: Via Milazzu, lu Rosarriu,
lu Corsu, lu Castedhu, lu Giardinu,
la Chjazza, la Stazzioni, lu Carvarriu,
Santamaria, lu Burgu ch’è bicinu.

‘Nu paisi chi tanti foresteri,
doppu chi lu vìttaru, ammagaru
e puru la famigghja si portaru.

Ed eu chi era cca finu avanteri,
immaginati chidhu chi borria:
La luntananza è ‘na malatia.

Poi,  continuando: « In questo piccolo paese, sorto secondo la leggenda durante la splendida epoca della Magna Grecia, si possono ammirare i ruderi del convento di San Filippo d’Argirò, nascosti tra gli olivi sul ripiano di una collina che termina a terrapieno sul torrente Sciarapotamo, e la chiesa del Rosario, edificata sulle rovine di un tempio pagano dedicato a Proserpina, nonché le pittoresche viuzze dell’antico quartiere, così piccole e strette che solo la forte luce estiva riesce a rischiarare, penetrando tra i tetti delle case in un gioco di riflessi.
Tra le manifestazioni folcloristiche in costume che destano grande commozione vanno ricordate la processione dei Misteri del Venerdì Santo e l’Affruntata, che rappresenta il simbolico incontro tra l’Addolorata e il Cristo risorto, essendo ambasciatore San Giovanni Evangelista, il giorno di Pasqua.
Molto seguite dalla comunità sono anche le processioni di San Rocco, della Madonna del Rosario e di San Michele Arcangelo, patrono del paese. »
Entrati nella superstrada, puntammo dritto al cuore brullo e ventoso della Locride. Dopo aver osservato un paesaggio tra i più contrastanti e suggestivi della Calabria, visitammo Marina di Gioiosa Ionica, Siderno e Locri, tre paesi situati lungo coste sabbiose, bordate di agrumeti e piantagioni di gelsomino.
Valentina tolse il cartoncino, posto precedentemente da me all’interno del libro Incontro con la Calabria, e cominciò la lettura: « Marina di Gioiosa Ionica è una cittadina moderna, diventata in un brevissimo arco di tempo luogo d’intenso turismo balneare. Nei pressi della stazione si trovano un anfiteatro e alcuni alloggi di epoca romana. Oltre la ferrovia sorgono ben conservate le torri Cavallara e Galera, ambedue del XVI secolo.
Siderno si snoda da una parte e dall’altra della statale 106, pianeggiante e regolare, al centro di un’ampia striscia di pianura, tra Roccella Ionica e Locri.
E’ centro dell’Artigianato dell’essenza del bergamotto e del legno e sede di numerose manifestazioni, tra cui il carnevale sidernese, la sagra del pesce, la festa patronale della Madonna di Portosalvo, con la storica e tradizionale fiera dal 4 all’8 settembre, e il premio d’arte e cultura Gelsomino d’oro.
Ogni anno d’estate è raggiunta quotidianamente da migliaia di vacanzieri che fruiscono di alberghi, bar, ristoranti, pizzerie e di una spiaggia pulita, servita da docce e giostrine per ragazzi e controllata da bagnini.
Locri è una delle località di maggiore interesse turistico della Calabria. Fondata dai Greci nell’VIII secolo a. C., conserva a sud, a 3 km dal centro, la zona archeologica della famosissima Locri Epizephiri, definita da Platone “fiore dell’Italia per nobiltà,  ricchezza e gloria delle sue genti”.
Notevole è anche quanto resta del teatro greco-romano e della necropoli.
Nei pressi della zona archeologica si trova l’antiquarium, dove sono esposte raccolte di monete, di tavolette votive di  terracotta e  materiale epigrafico vario, tutto ricavato in loco con le campagne di scavi.
Di grande interesse sono il premio nazionale di poesia del Giugno Locrese e la rassegna del Teatro Classico che si svolge nell’affascinante scenario del tempio di Marasà. »
Lasciata Locri, salimmo a scoprire Gerace, uno dei centri storici tra i più belli del mondo e certamente tra i più interessanti e preziosi della Calabria.
« A Gerace », continuò Valentina,  « meritano una visita il castello del XII secolo, la cattedrale a tre navate con le colonne provenienti, forse, dai templi di Locri, le chiesette tutte interamente affrescate di fabbrica bizantina, gli angoli più autentici, i palazzi e le botteghe artigiane dei vasai, scavate nel tufo.
Oggi come ieri, in un mondo che sembra cristallizzato e dove la scena della vita scorre ancora al rallentatore, questi umili artigiani, innamorati del dettaglio, danno prova della loro creatività e del loro gusto estetico, lavorando insieme in armonia. »
Sulla via del ritorno ci fermammo al ristorante Gambero rosso di Marina di Gioiosa Ionica, dove i camerieri ci servirono spaghetti di pasta fresca al profumo di primavera con frutti di mare e con fiori di zucca, accompagnati dall’ottimo dentice in crosta di zucchina.
Conversando cordialmente con il proprietario del locale, conosciuto per caso alcuni anni prima a Taurianova, venimmo a sapere che nella zona c’erano altri interessanti paesi da esplorare, in particolare Roccella Ionica, Stilo e Soverato.
Essendo ormai pomeriggio inoltrato, rinviammo quella visita a un altro giorno. Prima, però, di tornare a Maròpati, passammo dal Golosia, il bar più noto e raffinato del paese e, seduti a un tavolino, ci rinfrescammo con un gelato al limone, confezionato artigianalmente.
Poi andammo al mare. Sulla spiaggia un senegalese proponeva ai bagnanti bigiotteria e abiti leggeri, a trama rada, dai colori vivaci. Due bambine bionde quasi dello stesso colore della sabbia, tenendosi per mano in linea retta, parallelamente a quell’azzurrissimo mare, si divertivano ed esultavano di gioia, aspettando le onde che, tenere e fresche come una rugiada, lambivano con dolcezza i loro piedini.
Lasciammo quel posto non senza osservare il sole che illuminava con una luce radente le placide acque del mare e la gente che si godeva quella splendida vista, distesa o seduta sotto gli ombrelloni.
Ritornammo nella zona il giorno dopo, curiosi di vedere quei nuovi paesi  tanto decantati dal proprietario del ristorante Gambero Rosso.
Per primo visitammo Roccella Ionica, sorta sulle rovine dell’antica Amphissa. Nella cittadina si possono ammirare i resti di un castello angioino, i ruderi di un palazzo feudale e una necropoli del IX-VIII secolo a. C.
Tra le manifestazioni che ogni anno richiamano migliaia di persone, provenienti da tutta la Calabria, ricordiamo la festa patronale e il Roccella Jazz festival-Rumori mediterranei, durante il quale si esibiscono artisti di fama mondiale.
Per vedere Stilo, dopo aver percorso un bel po’ di chilometri della statale 106, imboccammo il bivio della strada provinciale che volge verso l’interno.
Il paese è conosciuto in tutto il mondo per  la celebre Cattolica e per il Palio di Ribusa, la più grande rievocazione storica della Calabria dei tempi medievali e rinascimentali che si svolge  la prima domenica di agosto.
Ricca di testimonianze di civiltà  Stilo è considerata la patria di Tommaso Campanella, filosofo e poeta tra i più grandi del Rinascimento e di ogni tempo.
« Dicono a Stilo », racconta lo scrittore palmese Domenico Zappone, « che cresca un’erba portentosa sul monte Consolino. Campanella la scoprì e ne mangiò, così divenne sapiente e scrisse tanti libri, molti perduti o ancora inediti, tra cui uno famosissimo intitolato Città del sole.
Campanella, monaco domenicano, visse negli anni in cui la Calabria si trovava sotto il dominio spagnolo. Facendo leva sulle disperate condizioni della plebe, organizzò una congiura che fu facilmente sventata. Processato per eresia e per lesa maestà, fu graziato dalla pena di morte perchè riuscì a fingersi pazzo.
Liberato dopo ventisette anni, trascorsi prima nelle prigioni vicereali di Napoli, poi in quelle romane del Sant’Uffizio, visse a Roma e a Parigi, dove morì povero nel 1639.
Gli Stilesi, invece, dicono che il filosofo ritornò in paese e che con quell’erba, dalla quale gli era derivata la sapienza, fabbricò una testa d’uomo a cui sarebbe stato concesso di parlare entro il termine di sette anni. E poiché fra’ Tommaso, oltre che dotto, era anche indovino e mago, tutti a Stilo aspettavano il portento.
Ora avvenne che una notte Campanella se ne stava sulla terrazza del suo convento assieme ai discepoli. Nel cielo era apparsa una nuova stella dalla lunghissima coda.
Che annunziava e donde veniva quell’astro misterioso? Per potersi pronunziare, Campanella pregò un discepolo di prendergli nella cella un libro sulle stelle.
Il discepolo obbedì ma, raggiunta la cella, cominciò a frugare e a rovistare per ogni dove, finché, maldestro com’era e disattento, fece ruzzolare dalla sua scansia la testa d’erba che, caduta rovinosamente, divenne polvere.
Grande e inconsolabile fu la pena di Campanella. Egli ormai era vecchio e stanco, la sua vita volgeva al termine. Peraltro egli sapeva dagli astri che non gli era più possibile fabbricare una nuova testa come quella distrutta perché prima dei sette anni occorrenti per l’acquisto della parola egli sarebbe morto. E così fu. L’erba della sapienza tuttora cresce sul Consolino e nessuno, dopo Campanella, è riuscito a scoprirla. »
Lasciata Stilo, attraversammo Monasterace Marina, dove abitai per circa un mese, prima di essere trasferito a Feroleto della Chiesa. Il bel paesino e gli amici, con cui trascorrevo il tempo libero in conversazioni, mi ispirarono la prima poesia in italiano che mi piace qui riportare:

Monasterace

Eccolo là Monasterace,
tra Guardavalle e Riace!
Il suo magico splendore
ti colpisce il cuore
e ti fa sentire un altro,
specie di mattina,
quando respiri
a pieni polmoni
l’aria di marina.
Eccolo là, sotto la collina,
a guardare il mare
e qualche barca,
lasciata a riposare!
A questo solo intento,
come un vecchio morente,
non sente,
non sa qual dolore
è nel cuore
di chi se n’è andato,
di chi è stato abbandonato,
di chi sotto questo cielo,
che non si rispecchia sul mare,
ma nelle acque di un torrente,
non finirà di ricordare
una fanciulla piangente.

Continuando il nostro viaggio verso nord, facemmo tappa a Soverato. La deliziosa cittadina, denominata La perla dello Ionio,sorge a 15 Km da Copanello, una delle più celebrate località balneari della provincia di Catanzaro.
Poco dopo il mezzogiorno riprendemmo la strada del ritorno. Passando per Caulonia Marina, un pensiero andò a Santa Domenica di Placanica, dove è venerata la Madonna dello Scoglio.
Grazie alla fede e al buon cuore di fratel Cosimo, due volte alla settimana il piazzale antistante la chiesetta si trasforma in un luogo dove  migliaia di pellegrini, confluiti da ogni parte, si inginocchiano, pregano e rivolgono inni di lode alla Madonna.
Una fiumara arida e sassosa ci accompagnò fin quasi alla grande galleria del valico, lunga 3200 metri. Subito dopo l’uscita, rallentammo la velocità per salire alla Limina. Sull’altopiano, avvolto dal silenzio della pineta, Francesco Scattarreggia ha avuto quest’altra intuizione poetica:

Limina

Soffia dalla valle dolce e pura
una brezza leggera tra gli abeti
e tace la cicala con l’arsura
nel verde dei giganti di faggeti.

Al “Passo del mercante” sulla sera
sbuffa l’Iveco carico di tronchi
e fugge l’avveduta capinera
per il veleno che minaccia i bronchi.

Vagano mansueti ed orgogliosi
torelli con giovenche innamorate,
brucando per sentieri rigogliosi
in gruppi di tribù socializzate.

E puntuale come la scadenza,
vicino alla fontana del villaggio,
trovi la bancarella e la credenza
con tipici prodotti ed il formaggio.

Non maca il mostacciolo a cavallino,
col cavalierte Orlando innamorato,
il cuore grande ed il fidanzatino,
il pane scuro, frisa e nocciolato!
Sul pony Pupa strilla Federica
di gioia e frenesia nella scoperta;
e si ripete la bellezza antica:
è stretta al nonno la manina incerta.

Usciti dalla superstrada, allo svincolo per Cinquefrondi, svoltammo subito a destra e ci dirigemmo su per la montagna.
Ci aspettavano sulla vecchia strada, ricoperta da una fitta vegetazione, il muretto e la fonte di Parlato che un caldo pomeriggio d’estate mi ispirarono questo sonetto:

Parlatu

Cu è chi di vui atri non jiu mai
dhà supa aundi chjamanu Parlatu?
Forzi ca tuni, allora ài pemmu vai,
quandu d’estati sini accaluratu.

Menz’a li petri curri ‘na funtana,
cu’ n’acqua frisca ch’èni ‘na dilizzia.
E’ l’acqua la cchjù frisca di la Chjana,
e nci ndi voli unu mu si sbizzia.

Fèrmati dhàni e supa a lu muredhu
respira pe’ nu pocu l’aria fina
chi lu ventu di vàsciu sempi mina.

E senti puru carchi accedhuzzedhu,
chi ‘ntra li frundi d’arburu, ‘nocenti,
faci, cantandu, nommu pensi a nenti.

Tra le persone presenti non c’era più il giovane  Michele Gentile a raccontarci ancora una volta della propria vita fitta di traversie.
Rientrato da Roma dopo una lunga e penosa malattia, Michele si era avvicinato alla poesia, dando alle stampe
Ricordi del paese dell’arte, una silloge dominata dall’esperienza della malattia e pervasa da un senso triste dell’esistenza che si esprime in toni poetici e ironici.
Tra le poesie si comprende maggiormente:

Via Quadrilatero

L’atru jornu chjanu chjanu,
passandu pe’ via di la Vittoria,
lu sapiti aundi jia?,
pemmu viju chidha strata
e la casa undi nescia.

L’àju scorpita,
ntarziata‘ntra lu cori.

Senti, ascurta
comu ti canta cu suffri
e cu ti ama!

Via di lu Quatrilataru,
si’ mama.

Scendendo verso Petricciana, zigzagando per un paio di chilometri, ci fermammo nei pressi della chiesetta della Madonna della Montagna, che gli abitanti della contrada festeggiano la terza domenica di settembre.
In quell’occasione si macellano maiali e la loro carne, bollita a fuoco lento entro caldaie di rame, viene venduta ai visitatori, che la gustano con pane e vino, seduti all’aperto.
Così il poeta cinquefrondese Francesco Ascone descrive questa festa nel volumetto di poesie dialettali  Mo’ vi dicu:

Festa a Perciana

Supa a la turri di don Paulinu,
la terza di settembri su a Perciana,
si carrijanu ettolitri di vinu
e nd’ammazzaunu porci ‘ntra simana.

Nc’è ‘na festa dhà ssupa a la cuntrata,
di la mbiata Maria di la Muntagna
e la chiesola è tutta mbanderata
puru la strata ntornu a la campagna.

Ntra chidha strata pari Carlevari:
fumijanu li casi e li senteri,
zzondè si gugghj carni di maiali,
dha vannu paisani e foresteri.

Spruppandu carni a l’ossa di costati,
ntra chidhu locu chjnu d’allegria,
si sculanu di vinu li cannati
la genti vaci e veni a crucivia.

Eccu ca sta passandu a prucessioni;
lu suli già cumincia a tramuntari.
Si lu guardi ti duna l’impressioni
ca si ndi cala ‘nchiumbu ntra lu mari.

Si sparanu li fochi artificiali,
lu celu si ‘mbrillanta e s’acculura;
si levanu li tendi e li fanali
e scoppia la cchiù forti palla scura.

E’ signu ca la festa è terminata,
ognunu pe’ li soi fa lu richiamu,
si prega ntra la chiesa alluminata:
Madonna mia, a nn’atr’annu mu tornamu!

« Ora vi faccio vedere il panorama che si gode dalla torre di questa villa, un tempo proprietà della famiglia Albanese.  », dissi.
I nuovi proprietari, che mi conoscevano fin da ragazzo, acconsentirono di farci entrare e, dopo i convenevoli di rito, ci accompagnarono in cima alla torre.
Il panorama, che si offrì ai nostri occhi, abbagliati dalla luce del sole che proveniva dritta da ponente, era di una bellezza paradisiaca, capace di togliere il fiato anche al più svezzato dei visitatori. Negli anni ‘40 lo storico Michele Guerrisi lo descriveva così nella sua interessante monografia su Cinquefrondi:
« L’amenissima pianura si protende in dolce declivio verso il mare dalla catena degli Appennini, dagli altipiani dell’Aspromonte, dalle serre di Fabrizia e di Serra San Bruno e dai pianori del Vibonese per una profondità media di quaranta chilometri e per una lunghezza di oltre settanta.
E’ tutta coperta di alberi, come tutti chiomati di faggi, di pini, di elci, di querce, di castagni sono i monti e le colline che le fanno corona.
Nelle adiacenze degli alvei dei fiumi e dei grossi torrenti vegetano rigogliosi centinaia di migliaia di aranci, mandarini, cedri, gelsi frammisti a piante da frutta di ogni genere e viti che offrono gioiosamente il loro contributo di verde.
Sullo sfondo lo sfolgorante azzurro del mare di Sicilia, dal quale emergono nitidamente delineate, come dipinte su una colossale fantastica tela da titani, le ridenti Isole Eolie, schierate di   fronte, con ai due lati Lipari ed il vulcano Stromboli. Tutto sotto un cielo tersissimo, che sembra voglia gareggiare con lo splendore del radioso Tirreno.
Fra tanta dovizia di colori, a profusione elargiti  ed associati dalla natura in una ineguagliabile armonia, i tramonti offrono in un vivido incrocio di luci, intercalati dalle scure sagome delle belle isole, tutte le smaglianti sfumature dell’iride.
Non vi è, quindi, da stupirsi se i Locresi, pur ferventi adoratori della dea Persefone, alla vista di quello sfondo meraviglioso nell’atto di varcare la catena degli Appennini per prendere  possesso delle terre cedute dal tiranno Dionisio, siano rimasti preda di tale entusiasmo da decidere d’innalzarvi un tempio a  quelle Dee, che in nessun altro luogo, da loro conosciuto, potevano maggiormente ispirare gli animi al culto delle belle  arti. »
Ricordo che era un sabato pomeriggio, il secondo del mese di maggio 1958. La Piazza e il Corso brulicavano di preparativi per la festa di San Michele. Salito lassù per circondarmi di uno spazio che non  mi desse alcun pensiero, dopo aver ammirato quell’inconsueto spettacolo, mi sedetti dietro il muretto dirimpetto alla villa e in solitudine, protetto dall’ombra di un olivo secolare, ideai un breve poemetto intitolato La leggenda di Cinquefrondi, che qui riporto, così come fu scritto di getto, e che  conservo con cura insieme ad altri lavori.
Ricordo anche che a ispirarmi fu Giovanni  Boccaccio, il terzo grande scrittore del Trecento, studiato poco tempo prima al liceo di Cittanova col bravissimo e carissimo prof.  Alfio Nicotra di Palmi.

LA LEGGENDA DI CINQUEFRONDI

Cap. 9: Il Recinto della memoria

Venerdì mattina, dopo colazione, Valentina e io uscimmo di casa. Le avevo promesso di portarla al cimitero per farle vedere la tomba di Fortunato Seminara e intendevo mantenere fede alla parola data.
Sul viale, intitolato al Nostro, sostammo lungo il castagneto, attratti da alcuni ricci, aperti e liberati dal frutto non ancora maturo da qualche curioso mattiniero.
Nell’ala sinistra del cimitero, vicino alla tomba di Franco Sergio, il partigiano “Alioscia” ucciso nell’aspra fase finale della Seconda guerra mondiale, dentro il recinto della memoria,  riposavano tre illustri scrittori maropatesi: Rosario Belcaro, Fortunato Seminara e Antonio Piromalli.
Su una lastra di vetro bianco, inchiodata ad una delle pareti, costruite con un apparato murario di estrema semplicità, erano  impresse queste parole a firma della giovane progettista, architetto Daniela Borgese:
« Il progetto nasce dall’idea di celebrare la memoria di questi uomini illustri che con le loro opere hanno cantato le amenità di questi luoghi, riproponendo il concetto del recinto sacro ai greci.Si è voluto progettare un luogo della memoria, un sito che permette di estraniarsi dalla freneticità quotidiana.
Dentro questo recinto il tempo si dilata; i giochi d’ombra, la luce filtrata, la voce dell’acqua, la presenza argentea dell’ulivo travolgono l’osservatore, lo invitano a sedersi, a pensare, ad ascoltare le voci lontane di coloro che hanno amato questa terra.
E’ un luogo che celebra i suoi eroi; le frasi degli scrittori ti svegliano dal torpore quotidiano; è un recinto, scrigno dell’amore che questi uomini hanno portato alla loro terra. Di quell’amore che resterà eterno solo se dimostrato nella memo-ria dei loro figli.
E’ un recinto umile, ma si innalza imponente davanti agli occhi del passante, si piega, si taglia, gioca con la tua attenzione, ti invita a scoprire il suo contenuto ad entrare per diventarne parte.
All’ingresso i tuoi occhi scorgono un semplice altare, una pietra triangolare, allegoria di quella “pietra scartata dai costruttori” che diverrà pietra angolare del tempio; dietro l’ulivo, simbolo di resurrezione e di pace, celebra i temi più carismatici della nostra religione, ma soprattutto ricorda con la sua presenza i nostri boschi d’ulivo, tanto cari ai Numi tutelari.
Tutt’intorno è la pietra a parlare, a raccontare storie di dolore, contadini che hanno lottato per rendere fertile questa terra aspra.
E’ da sempre un blocco di pietra, puro ma nobile nella sua geometria, a conservare le spoglie di quegli uomini che, con umiltà d’animo, hanno reso nobile la storia di questo popolo.
Un silenzioso blocco di pietra accarezzato dall’acqua; circondato dall’abbraccio vitale che l’acqua dà all’uomo fin dal principio della sua vita, dal grembo della madre fino alla sua fine.
L’acqua, principio e fine, elemento vitale per l’umanità, con la sua presenza ti aiuta a volgere lo sguardo verso quegli uomini che questo recinto celebra.
Racconta la gloria di quelli che, grazie alle loro capacità poetiche, hanno cantato ai popoli di questi luoghi, ma ti indica lo squarcio nel setto.Volgi lo sguardo verso quelle mute        tombe che, con le loro lacrime ed il loro sudore, hanno reso possibile la vita in questi luoghi.
E’ un recinto della memoria, questo, un luogo di voci lontane che narrano ai loro figli dolori, gioie e silenzi di questa terra. »
Quella al centro – dissi a Valentina – è la tomba di Fortunato Seminara. Nato a Maròpati da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, frequentò le scuole in vari paesi e città e si laureò in giurisprudenza a Napoli nel 1927. Morì a Grosseto nel 1984, ma fu sepolto, come desiderava, nella sua terra natale, a cui era molto affezionato.
Al fine di poter dare libero sfogo ai suoi sentimenti e riflettere a lungo su quel piccolo mondo di contadini che lo circondava, decise di ritirarsi a Pescano, un luogo appartato e tranquillo, dove possedeva una casetta e un vigneto, lasciatigli in eredità dal padre.
In un articolo, pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno,di Bari, così scrive: « Mi sono esiliato volontariamente nella solitudine di questa campagna. Gli ingenui e tutti coloro che hanno sete di vita corrono alla città come a un miraggio ingannevole. »
Non esercitò mai la professione di avvocato perchè si diede all’arte dello scrivere, senza trascurare il suo primordiale amore per la terra, da lui definita “pasta lievitante”. La sua notorietà è aumentata di recente, dopo che la Fondazione, a lui intitolata, ha cominciato a indire convegni e a stampare libri, atti e quaderni con proposte critiche, pubblicati dall’editore Pellegrini di Cosenza.
Quando nel 1969 mi sposai e venni ad abitare a Maròpati, di lui sapevo solo che aveva scritto Il mio paese del Sud, un libro in cui racconta le penose condizioni di lavoro e di vita dei nostri contadini, e Le baracche, un romanzo recensito molto favorevolmente dalla critica.
Mi piacque il primo per la chiarezza e la semplicità degli argomenti, ma ancor di più il secondo per il modo sobrio e intenso con cui descrive l’ambiente paesano e per la rassegnazione con cui i poveri personaggi accettano un destino che sembra non lasciare spazio a nessuna speranza.
Mi fece tornare subito con la mente agli studi liceali, alla narrativa del Verga, il massimo esponente del Verismo, un vasto movimento ideologico e letterario che dominò la cultura italiana nella seconda metà dell’Ottocento sotto l’influsso del romanzo naturalista francese.
Un pomeriggio di primavera inoltrata, tiepido e chiaro, invitante a uscire all’aria aperta per una lunga passeggiata, vidi lo scrittore scendere dal paese e sostare per un istante di riposo davanti al monumento che ricorda i caduti delle due guerre mondiali.
I suoi capelli brizzolati e folti, nonostante l’età avanzata, emergevano sopra la testa grossa e tonda.Si era tolto da poco il vecchio cappotto a lisca di pesce e il cappello grigio, a larghe falde, che d’inverno si calava fino agli orecchi per ripararsi dal freddo; aveva sotto il braccio la borsa di pelle, che mai abbandonava, quando usciva di casa, e nella quale poneva non tanto valori ed effetti personali quanto carte con appunti e abbozzi per un nuovo libro, un discorso o un avvenimento.
I nostri sguardi si incrociarono per un attimo e, dopo aver risposto al mio saluto con un cenno del capo, si avvicinò e mi chiese di accompagnarlo al cimitero. Durante il lungo percorso, compiuto dalla strada sottostante che fiancheggia il campo sportivo, parlammo di tante cose, delle sue opere, delle  sue disavventure editoriali e dei problemi del nostro paese.
Si esprimeva con poche frasi precise e lineari, come se temesse di sbagliare, di fare una brutta figura. Era profondamente deluso per la scarsa cultura dei Maropatesi e per il solco che inspiegabilmente si era creato tra lui e gli amministratori del Comune. Il solco, a mio modesto avviso, nasceva sia dai modi secchi e scostanti che lo stesso Seminara assumeva per il suo carattere di riservatezza estrema sia perché gli amministratori badavano piů ai problemi quotidiani della gente piuttosto che ai progetti di ampio respiro culturale.
Non appena entrati nel cimitero, andò dritto alla tomba dei genitori, che doveva far riparare, diceva, a causa di alcune crepe che si erano aperte lungo i muri e facevano penetrare l’acqua e l’umidità.
Intuii subito che quell’interessamento nascondeva qualcos’altro. Non era la prima volta, infatti, che mi capitava di vedere persone anziane andare a trovare i propri morti o i luoghi dove fioriscono i ricordi del passato.
Usciti dal cimitero, mi portò in contrada Poro, dopo aver imboccato una stradina di campagna, che percorremmo nell’ombra fino a uno spiazzo aperto, solitario, delimitato tutt’intorno da alberi secolari. Lì, seduti su una grossa pietra, lo scrittore e io ci sentimmo subito avvolti da una sensazione di pace e di serenità. Sopra di noi c’era un cielo ampio, azzurro, tersissimo, in cui era piacevole abbandonarsi.
« E’ un angolo di paradiso!  », esclamai.
« E’ proprio così. Ci vengo ogni volta che sono preso da un desiderio intenso di spazio infinito e vi rimango a lungo per godere di questo silenzio e questa pace  », confermò.
« E’ tutto opera di Dio, avvocato. Ma voi ci credete? » , aggiunsi di botto, curioso.
Invece di rispondermi, mi chiese di rimando:
« E voi?  » –  « Io si, gli risposi. Non solo il cielo, il mare, la terra, questo spazio, ma anche ognuno di noi in piccola immagine è un esempio di Dio. »
Restammo alcuni minuti in quel luogo senza parlare e poi ce ne tornammo pian piano in paese, salendo per la ripida strada che porta al rione San Rocco.
Arrivati lassù, ne approfittammo per una nuova pausa, che si prolungò più delle altre perchè volle osservare il panorama, dai cipressi sempreverdi del cimitero alle case del rione San Giovanni, affacciate sul vallone Jola. Mi recitò questa poesia, nella quale prevale un sentimento di fatalistica rassegnazione alle avversità della vita:

Maròpati

 Antico infermo
Lungo disteso
Nudo sulla collina
Nudo e solitario
Remoto e oscuro il tuo nascere
Come oscuro il tuo morire.

Colsi l’occasione per informarlo che anch’io componevo poesie e che avevo pubblicato da poco un poemetto dialettale dal titolo ‘Nu sonnu stranu e del quale, al ritorno, gli diedi una copia con la promessa di un giudizio, che arrivò puntualmente alcuni giorni dopo su un foglietto scritto a macchina e firmato:
« Il poemetto di Luigi Massara ‘Nu sonnu stranu, se nella forma risente di ricordi e schemi scolastici, nel contenuto possiede qualità di freschezza e di spontaneità. E’ mosso, vario, armonico nelle sue parti. E’uno di quei componimenti, manifestazione di un’inclinazione e di rilevanti doti poetiche, che lasciano presagire cose migliori. »
Durante il suo funerale, avvenuto a Maròpati nel 1984, seppi che, pochi giorni prima di morire, si lasciò confessare e reclinò il capo nell’accettazione della volontà di Dio.Questa confidenza, per la verità inaspettata, mi rese molto felice perchè contribuì a rafforzare ancor di più i miei convincimenti.
Quel Dio che conobbe la sofferenza e la morte non lo aveva abbandonato, ma gli fu accanto al letto nel momento supremo, vivendo la sua pena.
In paese si narra un aneddoto che tutti conoscono e nel quale si riscontra un velato atteggiamento di ingratitudine verso il padre.
Questi un giorno andò a trovarlo nel seminario di Mileto con il solito carico di prodotti della terra. A un superiore, che gli chiese chi fosse quell’uomo dai modi villani, senza batter ciglio, pare abbia risposto: E’ il mio garzone.
C’è chi dice, però, che lui venerasse suo padre e che questa è solo una diceria, inventata e diffusa da qualche “signorotto” locale. L’invidia è cieca, dice Livio, nè altro sa fare che diffamare le virtù e corrompere gli onori e i meriti che a questi conseguono.
Quella in alto – continuai – è la tomba di Rosario Belcaro, l’autore della poesia che ti ho recitato il giorno in cui siamo arrivati a Maròpati. Costretto a lasciare il paese natio e gli studi per curarsi e guarire da una brutta malattia, morì a Napoli nel 1970, all’età di 29 anni.
Giovanissimo incominciò a poetare e a collaborare a vari giornali e periodici di cultura. Nel 1963 pubblicò un gruppo di liriche dal titolo Olezzo di Calicanto, in cui si rilevano chiarezza di immagini e vivo sentimento. E’ un giovane che sente la bellezza  che è nella vita e da questa sa cogliere i più dolci motivi. Seguirono i volumetti in versi E sono pietre i giorni, Una lunga ossessione e Poesie, in cui prevale il tema della miseria, dell’emigrazione, della tristezza e della malattia.
Nel 1973, postumo, venne pubblicato il volume Poesie di Rosario Belcaro a cura di Emma La Face, un’insegnante di Reggio Calabria che apprezzò la sua poesia, definita da lei genuina, spontanea e personale.
Il volume raccoglie tutta la produzione edita e inedita del poeta maropatese.Leggerla è come ricalcare un sentiero che tutti abbiamo percorso, è un ritrovare memorie, sensazioni, emozioni che abbiamo vissuto.I suoi versi riescono a farle emergere dal profondo, dove erano sepolte, alla soglia della coscienza; il sentiero dei ricordi ha quasi sempre un selciato impastato di lacrime e queste, più che i sorrisi, sono il cibo dei poeti. I poeti non sono ottimisti.In fondo a ogni curva c’è l’abisso, c’è la cruda realtà e intanto inesorabile il tempo passa, divide, consuma, incenerisce ogni cosa. Restano i sogni, resta la speranza di conoscere, alla fine di un’esistenza tormentata, il mistero dell’Eterno.
Sono molto rammaricato di non avere avuto l’opportunità di conoscerlo. Eravamo tutt’e due del ‘41. Conobbi, invece, suo padre, persona buona, di grande vecchiezza e di aspetto venerando.
Da lui appresi, durante le nostre fugaci conversazioni davanti al bar San Giorgio, molti proverbi, modi di dire e aneddoti sul mondo contadino, pubblicati nel mio libro L’agricoltura nei proverbi e nei modi di dire calabresi.
Vidi per la prima volta Antonio Piromalli negli anni ‘80,  subito dopo la pubblicazione del mio secondo libro L’aspetto fono-morfo-sintattico e lessicale della lingua di ‘Nu sonnu stranu.
Era conosciuto in tutta Italia sia per gli incarichi direttivi nelle scuole e nelle università che per la sua opera letteraria.
Come critico si distinse per la chiarezza analitica, la solidità di argomentazioni, la penetrazione dei testi e degli autori. Sorprende in lui la ricchezza di riferimenti e di documentazione storica, che sostiene e corrobora tutta la sua attività. Le sue puntualizzazioni, specialmente su poeti e letterati calabresi, sono innovative rispetto alla pletorica produzione d’occasione.
Da noi è ricordato, soprattutto, per l’opera Maròpati. Storia di un feudo e di un’usurpazione, uno studio storico-geografico-ambientale del territorio, frutto di ricerche compiute in archivi e biblioteche su documenti prevalentemente inediti.
Veniva di tanto in tanto a Maròpati per far visita al fratello Rosario che aveva un negozio in paese. Per suo tramite ci incontrammo e ci presentammo.Gli diedi una copia dei miei libri, pregandolo di esprimere un giudizio. Promise di farsi sentire, ma così non fu, non si ricordò più di me.
Forse perchè non avevo la stessa visione sociale? Nella raccolta di liriche Da un’altra stanza si legge questa poesia che non lascia dubbi su come la pensasse al riguardo:

Democristiani

Sporchi siete sporchi
dell’una e dell’altra mano:
ma vi toglie sporcizia l’amicizia
col Vaticano.

   Mi deluse maggiormente quando, dopo l’improvvisa scomparsa, avvenuta a Polistena il 7 giugno 2003, mentre si accingeva a presentare un altro libro di Fortunato Seminara, partecipai alla sua commemorazione. Ricordo che a conclusione della cerimonia ci fu dato in omaggio una copia del libro su Maròpati.
Leggendo questa seconda edizione, constatai con grande amarezza che nel capitolo in cui passava in rassegna gli intellettuali maropatesi aveva parlato molto di un parente, di amici e di sé, escludendo o quasi ignorando tutti gli altri.
Perchè avesse deciso di agire così, non lo so. Ritengo che non si sia comportato in maniera egregia.
Se è vero, però, che avesse affidato l’aggiornamento ad altri, prendo atto di questo contesto e dico solo che questi, lasciandosi influenzare da preconcetti o simpatie personali, lo hanno ingannato.
In effetti, qualche giorno prima che morisse, aveva confidato a qualche amico di non essere pienamente d’accordo con quanto riportato nel capitolo finale, di aggiornamento.
Certo, chi l’ha conosciuto e apprezzato negli innumerevoli convegni e seminari di studi, non può sottacere l’esasperazione di una certa linea politica, sulla quale, martellanti, le sue parole cadevano come macigni.
A parte questi lievi difetti e il fatto che la sua poesia non ha avuto su di me alcun potere di evocazione – La poesia deve essere veicolo di chiarezza e di emozioni, non ostentazione di cultura – concordo pienamente con chi ha pensato di far incidere sulla lapide queste parole:
« Maestro di cultura, ethos, umanità / con intensa opera e profondi studi / per tutta la vita indagò e promosse / la storia della letteratura italiana, regionale, minoritaria, / l’innovazione nella scuola / la critica politica e sociale,  / la poesia. »
Accanto a loro tre a Maròpati si contano molti altri poeti e scrittori, vari di ispirazione e di accenti, che hanno titolo di figurare nella nostra storia letteraria:
Ferdinando Alvaro, autore di una raccolta di cento sonetti proverbiali, più uno di commiato, col quale si licenza dai lettori, dichiarando che lo scopo dell’opera non è quello di guidare al bene gli adulti, ma gli inesperti teneri fanciulli, i quali possono dalla lettura di un buon libro trarre motivo di insegnamento e di educazione.
La sua poesia, di intonazione satirica e morale, molto vicina a quella del Giusti e dei poeti vissuti nel seconda metà dell’ Ottocento, è stata definita in un articolo della Voce di Calabria gentile, popolaresca, semplice e commovente, capace di aprire un dolce varco nell’animo del lettore, intenditore e profano.
Pasquale Scarfò, che visse a lungo a Napoli, dove collaborò su giornali, riviste e settimanali e scrisse novelle, commedie, drammi, poemi, poemetti, profili letterari e un romanzo dal titolo I mendicanti di sole. E’ anche autore di 300 canzoni e vincitore di un festival di Napoli con la canzone ‘O ritratto e Nanninella  e di Rieti con Cerco qualcuno che m’ami.
Alfredo Petrosillo, critico letterario, parla di lui come di  uno  che, attraverso la sua multiforme attività letteraria, rivela il possesso di un’anima ricca di luminosità coloristica. Anche lui dedicò a Maròpati questa poesia:

Paese mio

Dovunque ti ho sognato con amore,
Ed ora con la testa incanutita,
Torno al tramonto dove fu l’albore,
Perché la mia commedia é già finita.

Cristoforo Laganà, che nel 1982 pubblicò Le tre ipotesi di un prodigioso evento, un libro in cui parla delle lacrimazioni e della sanguinazione della Madonna del Rosario di Pompei, fenomeni avvenuti in casa dell’avv. Giambattista Cordiano.
Giuseppe Neri lo ha definito un testo curato nei particolari che rivela bravura e serietà da parte dell’autore, mentre Antonio Demarco: “E’ un libro scritto col cuore che si legge d’un fiato e si rilegge”.
Fu anche poeta, giornalista, commediografo e scenografo.
Morì a Roma nel 1986, lasciando molti scritti inediti, tra cui I racconti in versi del Cuore del De Amicis.
Poeta e narratore autodidatta fu Domenico Dimoro. Ritornato in patria dopo la prigionia in Russia durante la Seconda guerra mondiale, visse prima a Taranto, poi in Calabria. E’ autore di tre raccolte di liriche: Tracce nel tempo, Momenti di vita, Poesie e di tre opere di narrativa: Il ragioniere in soffitta, I superstiti di Arbusov e Oltre il Dniepr. Gli argomenti sono le persone, le cose, gli ambienti in cui vive, i ricordi di guerra e tutto scorre dalla sua penna sotto i dettami del cuore e della mente. Morì a Polistena il 22 febbraio 1981 nell’anonimato più profondo, dopo aver composto questi versi sul paese natio:

Maròpati

 Luogo dove ho avuto vita,
sono più di tre lunghi decenni
che ti sono staccato,
e i tuoi dolci riverberi
mi seguono nelle ore serene,
che ognuno
di frequente non può avere,
e sognando rivedo te, Morvani,
che mi cagionava la gola arsa nell’estate,
e la gente di quel tempo,
e son felice.

Della sua poesia così scrive Mario Comassi: “Poesia semplice e schietta, fuori delle correnti, e pur capace, in più di un momento, di attingere valori che rimangono indimenticabili”.
« E’ mia convinzione, Gigi, che Maròpati abbia ispirato anche te, disse Valentina. »
« Hai indovinato, risposi. Maròpati è una cartolina vivente. Durante una veglia notturna, a primavera, mi ha fatto cogliere dalla terrazza voci e immagini, che non solo mi hanno offerto un godimento continuo fino allo spuntare del giorno, ma mi hanno posto in uno stato di capacità creativa:

Maròpati in una notte di primavera

Dormon gli olivi e gli aranci
sulla collina del Poro.
La luna, al suo colmo,
illumina, argentea,
le scuole, le case e le strade.
La fontana si scuote,
sussurra all’acqua
di scorrere piano.
Il ponte, deserto,
sorride ai lampioni,
sognando coppiette,
ansiose di carezze e di baci.
Il tempo passa,
volando sulle ali del pensiero.
Sul far dell’alba
d’un tratto le luci si spengono,
un nido si sveglia,
poi un altro, un altro ancora…
ed è un piare, vispo e diffuso,
di colombi, di passeri e di rondini
che salutano la bella stagione.  »

   Scrisse un opuscolo di argomento religioso Giambattista Cordiano, dopo i fatti misteriosi avvenuti in casa propria quando, da un quadro della Madonna del Rosario, sono cominciate a sgorgare lacrime di sangue.
Dello stesso argomento scrissero il nostro parroco, don Eugenio Anile,  e Giovanni Mobilia, un giovane che esercita la sua attività nella ricerca e colleziona libri e fotografie. Questi è anche autore di interessanti saggi, pubblicati su giornali locali come L’Eja,  Maròpati…e dintorni e su Calabria sconosciuta.
Di Maròpati è Giorgio Castella. Nel libro Un calabrese a Milano descrive le vicende che lo videro emigrare giovanissimo dalla Calabria.Davanti ai suoi occhi scorrono, inoltre, i luoghi dell’infanzia e i volti delle persone care, primo fra tutti quello del padre, instancabile lavoratore.
Del capitano Seminara sappiamo che lasciò molte pagine inedite, di don Mimì Francone che aveva gusto poetico e di Domenico Cavallari, nipote di Giuseppe Umberto, autore di un libretto contro il prepotere di alcune famiglie borghesi verso la fine dell’Ottocento, che ha scritto un autentico e prezioso diario, ambientato a Pescano. Rocco Sorrenti, avvocato, ha pubblicato a Roma una silloge dal titolo Sentiment, Francesco Ritorno un volumetto di poesie dal titolo Ndavi pe tutti.
Non posso tacere il nome di due figure femminili,  Lucia Manno e Maria Concetta Coco. La prima è autrice di un diario in prosa e in versi, pubblicato postumo col titolo Ora che sei qui, la seconda di tre volumetti di poesie che rappresentano i suoi sentimenti, espressi in un gioco di parole semplice e inconsueto.
Nella frazione Tritanti vive Giuseppe Sigillò, autore  di alcune raccolte poetiche, in cui il tema dominante è l’amore per la natura, fonte di riflessioni appassionate.
Poeti tritantesi sono Michele Gallizzi, Francesco Sigillò e Teresa Calvi Viola, che si è avvicinata alla poesia in età matura, dopo un tragico evento che ha scosso profondamente la sua persona. Segue le sue orme anche il figlio Francesco.
Coltiva la poesia Julio Cesar Dimol, figlio di maropatesi, emigrati in Argentina all’inizio del ‘900. Di Domenico Macedone e di Bruno Gallizzi, figlio di un tritantese emigrato a Genova, sentiremo presto parlare.
Non vanno, infine, dimenticati alcuni componimenti narrativi di carattere popolare, composti in frettolosi versi occasionali, rimati e ritmati, in particolare per la recitazione nelle piazze, durante le celebrazioni del carnevale.
L’intento degli autori, villani dalla vitalità scaltra e festosa, non era soltanto quello di divertire gli uditori con comiche battute, ma anche di manifestare una protesta nei confronti delle classi detentrici del potere, una proclamazione iraconda della loro miseria, un’ostentazione delle offese a cui erano sottoposti.
Purtroppo questa poesia è andata perduta perché nessuno si è preoccupato di salvarla per farla conoscere alle nuove generazioni, dopo essere sopravvissuta per anni nella memoria degli anziani come una festa collettiva straordinaria.
La ragione di tale fioritura poetica a Maròpati va, forse, cercata nel carattere stesso dei Maropatesi, introverso e, perciò, piuttosto propenso allo scavo interiore, all’ascolto delle voci dell’anima, alla meditazione e alla contemplazione della natura, quale specchio di una più profonda realtà religiosa o comunque metafisica.
Si pensi, ad esempio, ad un maropatese di adozione, Pietro Pizzarelli, che aveva nel cuore Maròpati, tanto da ritornarvi spesso, e all’arduo percorso della sua poesia. Nelle tre raccolte di liriche Non turbare il poeta, L’umana vicenda e i ricordi, I parametri assurdi l’autore, sull’arco della memoria, ricostruisce temi dell’umana esperienza, degli affetti, della terra, dell’amore e dell’infanzia.
Accanto al poeta Pizzarelli si colloca, inoltre, il critico Pizzarelli, capace di illuminare puntualmente non solo l’intensità lirica di un frammento poetico, ma anche di eccedere in argomentazioni troppo sottili: una trovata poco felice per far capire a coloro che sono alle prime esperienze letterarie che le cose belle sono difficili e richiedono pensiero, cura e tempo.
Lasciammo il recinto della memoria per andare a visitare la tomba di nonno Pietro. Dal cancello principale spuntarono due vecchiette, i capelli alla maschietta, bianchi come la neve, scese dal paese per pregare e deporre fiori sulle tombe dei loro cari. Se non fosse per loro e per pochi uomini, i nostri cimiteri sarebbero visitati soltanto il giorno della commemorazione dei defunti e in occasione dei funerali.
Verrà, forse, un giorno in cui torneremo tutti a visitare i cimiteri, e non soltanto per piangere e pregare, ma per trovare proprio in quei luoghi conforto e forza d’animo per proseguire il cammino della vita. Ma fino a quel giorno sarà a queste donne che dobbiamo essere grati se in tempi di rifiuto della morte si aggirano tra le tombe senza fretta, ostinandosi a mantenere viva la memoria preziosa di coloro che ci hanno preceduto nel viaggio.
Una carezza e un bacio alla piccola fotografia ovale del nonno, un po’ sbiadita per il passare degli anni, poi una preghiera di suffragio, come mi ha insegnato mia madre fin da bambino per gettare un ponte con il mondo dei morti, prima di allontanarci da tutte quelle tombe, alcune vecchie, abbandonate, con inciso il nome in via di corrosione, altre nuove, con scritte essenziali, di persone conosciute, avvertite vicine e presenti perché con la loro onestà e con la loro dedizione al lavoro hanno lasciato un profumo intorno a noi, altre ancora di persone giovani e meno giovani, la cui vita è stata spezzata prematuramente da un destino crudele.
Scendendo dalla parte sinistra del viale, Valentina volle entrare  nel castagneto. Ci sedemmo sulla panchina all’ombra riposante degli alberi e, allietati dallo spittinìo cadenzato di un pettirosso, guardammo per un po’ l’acqua che scorreva, gorgogliando, dalla fontana di mattoni, poi riprendemmo il cammino verso casa, animati da quell’incontro ricco d’umanità e di sentimenti, che rappresentano un vero e proprio viatico per noi viventi.

Cap. 10: Giffone (Da pubblicare)

 

Cap. 11: Il ritorno (Da pubblicare)

 

Dal dialetto all’italiano

 

Questionario

 

Fonti bibliografiche